L’impressione suscitata dalla valanga di notizie, soffiate e maldicenze attorno al “caso Palamara”, puntualmente sincronica alla bufera intra-giudiziaria per il rinnovo dei vertici di alcuni uffici, a partire dalla Procura di Roma, è che si tratti di una questione di chierici e per chierici, di cui l’opinione pubblica può capire, e perfino vedere, solo ciò che i chierici, e i rispettivi partiti, vogliono che veda e capisca.

Uno dei lasciti più velenosi del trapasso dalla Repubblica partitocratica a quella giudiziaria inaugurata dopo “Mani pulite” è di avere trasformato qualunque scontro di potere nelle istituzioni in una lotta tra il bene e il male, tra l’onestà e il malaffare e di avere incaricato procure e tribunali di sovraintendere agli esiti di questo scontro, con patenti di onestà e disonestà “ufficializzate” neppure solo da sentenze, ma da avvisi di garanzia, indagini, intercettazioni volantinate, character assassination pianificate e realizzate con larghezza di mezzi.

Come era inevitabile che fosse – e che continui ad essere – gli schieramenti dall’una e dall’altra parte della sbarra dell’accusa non disegnano affatto la “geografia morale” dei protagonisti, ma la situazione dei relativi rapporti di forza. Ma questa trasmutazione della “merda” degli scontri di potere in un “fango” giudiziario impossibile da smaltire o anche semplicemente da stoccare ha comportato anche una trasmutazione genetica degli equilibri istituzionali e dei processi politici interni ai poteri dello Stato.

Il CSM fa, grosso modo, quello che la Costituzione vuole che faccia – uno sporco lavoro, che qualcuno deve pur fare – in una composizione mista e imbastardita con la politica. Ma la politicizzazione correntizia della magistratura da una parte e il conferimento alla “giustizia” di un super-potere decisionale e arbitrale sulle scelte della politica, e neppure solo di quella giudiziaria, ha reso l’organo di autogoverno della magistratura un vero organo di governo parallelo, nella punta della piramide del potere politico-giudiziario.

Questo processo, per così dire, istituzionale è proceduto di pari passo, come avviene per ogni istituzione, con un adeguamento della relativa ideologia al ruolo radicalmente snaturato della giustizia penale come dispositivo “igienico” del potere. La domanda di giustizia in Italia non è – mediamente – domanda di giustizia, nel senso della funzione della giustizia penale, ma è una domanda di “pulizia”. La giustizia ha cessato di essere un potere separato, per diventare un superpotere ideologico, assistito dalla forza delle manette, certo, ma più ancora da un ruolo civile e “spirituale” riconosciuto proprio perché non democratico e dunque immediatamente e totalitariamente rappresentativo del popolo e della sua ansia di “giustizia”, che però non è evidentemente quella dei tribunali.

Per questa ragione, è inevitabile che anche le “Magistratopoli”, che maturano negli scontri di potere tra le correnti del CSM per l'esercizio di questo potere abusivamente politico, somiglino alle “Tangentopoli” e le inchieste, le veline e i pizzini a mezzo stampa impediscano di vedere onestamente il male solo dalla parte degli indagati e il bene solo da quella degli inquirenti. Anzi suggeriscono l’impressione che in tutto questo non vi possa essere, da nessuna parte, proprio nulla di buono.

In questo quadro i giudici non sono giudici e i pm non sono accusatori, ma sono sacerdoti officianti di un’oscena liturgia civile. I loro scontri di potere interni – come quello per la nomina dei capi degli uffici giudiziari – replicano quello che la giustizia è diventata al loro esterno. Una guerra senza esclusione di colpi che si vince prima del processo, in primo luogo sui giornali, con le soffiate, le veline e la macchina da guerra della denigrazione, che richiama il popolo dei “credenti” alla speranza di salvezza procurata dal potere togato.

@carmelopalma