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Quando Berlusconi corre in soccorso di Salvini contro il presunto attacco giudiziario all’esecutivo, dà la misura delle perversioni a cui ha condotto la guerra dei (quasi) trent’anni tra partiti e procure e dell’irrimediabile compromissione di un lessico politico-costituzionale in grado di ordinare i rapporti sensibili tra potere politico e giudiziario, fuori dagli schemi del conformismo “garantista” e “giustizialista”.

In Italia, la questione è ormai ridotta a se, in ultima istanza, debbano comandare la politica o la magistratura e quale delle due soluzioni sia più costituzionalmente coerente e garantisca meglio l’assetto democratico delle istituzioni. Di fronte a una domanda tanto sbagliata, non ci sono risposte giuste e neppure sensate e l’unico atteggiamento concretamente alternativo sarebbe quello di disconoscere sviluppo e fondamento di un discorso, che ha letteralmente avvelenato i pozzi della democrazia italiana e che ha non casualmente prodotto una classe dirigente, non solo politica, capace di muoversi disinvoltamente sull’uno o sull’altro registro, a seconda della convenienza o della posizione e di invocare indifferentemente la forca o l’immunità. Il campione di questo spirito è proprio il ministro Salvini, che è consapevole che quella “garantista” e “giustizialista” sono retoriche perfettamente fungibili, la testa e la croce della stessa medaglia politica.

Alla fine degli anni ’80 Tangentopoli fu qualcosa di molto diverso da un improvviso risveglio di interesse delle procure sulla gestione disinvolta del denaro e del potere pubblico da parte della partitocrazia primo-repubblicana morente. Fu una vera e propria guerra civile, non all’interno della società, ma del sistema di potere italiano e un’usurpazione non solo tentata, ma sostanzialmente riuscita, del principio di legittimazione democratica.

Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, non solo a sinistra, ma anche sul lato berlusconiano, segna la resa dei perdenti ai vincenti di questa guerra, che non era solo giudiziaria, ma politico-culturale e volta a riabilitare (si diceva: moralizzare) la vita pubblica prima attraverso la riconosciuta supplenza del potere giudiziario e poi attraverso il “volontario” riallineamento della classe politica ai canoni di correttezza e trasparenza dettati, su diversi piani, dal cosiddetto partito dei giudici.

L’inchiesta del procuratore capo di Agrigento sugli atti e le omissioni del Ministro dell’Interno, che l’ha ripetutamente sfidato ad indagarlo, è parte di una guerra civile uguale e contraria a quella di Mani Pulite, in cui i rischi (anzi: già i danni) all’equilibrio del sistema di potere democratico non sono legati all’usurpazione del potere politico, ma al suo esercizio, per così dire, assoluto. Siamo all’estremo opposto dello spettro della sindrome politico-giudiziaria italiana: non a quello del governo dei giudici, ma a quello del governo eslege, senza legge. Però il fondamento è paradossalmente il medesimo: quello di una indiscutibile legittimazione “democratica”, che travolge qualunque scolastico appello al principio della divisione dei poteri o di legalità.

Anche quella dipietrista, infatti, era un’espressione plebiscitaria e forsennata di volontà popolare, in un senso simile a quello che intende oggi Salvini, cioè un esercizio di giustizia – è giusto combattere la corruzione; è giusto fermare l’immigrazione clandestina… – in cui sono i fini a giustificare i mezzi e il bene pubblico procurato a riscattare il male privato disinvoltamente inferto a chi si trovi a incrociare la strada di questa giustizia. Il popolo ha assolto decine di magistrati dal sequestro sommario di decine di inquisiti, così invitati a “collaborare” nella lotta alla corruzione. Ed è, culturalmente, lo stesso popolo che assolverebbe Salvini di avere sequestrato 177 richiedenti asilo della Diciotti, prima in mezzo al mare e poi nel porto di Catania per costringere altri – come usa dire: l’Europa – a condividere con l’Italia il costo dell’accoglienza.

L’ignobile “poliziottismo” di Salvini è il “manipulitismo” dei tempi nuovi, è la rupofobia di un’Italia che quanto più si sente mancante, fragile e colpevole, tanto più sente si sente aggredita e “sporcata” dall’esterno e cerca ossessivamente mezzi per liberarsi da questa minaccia, dal sudiciume da cui si sente invasa... Il populismo è la continuazione del dipietrismo con altri mezzi, appartiene all’album di famiglia delle monetine del Raphael e dei cappi che i padri di Salvini esibivano in Parlamento per incoraggiare Tonino. Per non parlare del M5S, che è il prodotto più recente dell’anti-politicismo e della trasformazione della lotta democratica in un perenne gioco tra guardia e ladri e in eterna promessa di gogna e di galera… Altro che giustizialismo antigovernativo per un avviso di garanzia obbligato.

@carmelopalma