Colonna gennaio chiocciola

Qualche giorno fa il professor Bruno Montanari ha condiviso su Strade un’importante riflessione sull’incapacità delle categorie generate dai fenomeni sociali e dal pensiero politico degli ultimi secoli – in particolare quelle marxiane da cui, concordo con lui, un’analisi della contemporaneità non può ancora prescindere – di dare significato e coerenza all’agire degli uomini. Oggi privi, secondo Montanari, delle categorie di “classe”, “borghesia”, “proletariato”, “uguaglianza” e “destra/sinistra” tra i fondamentali riferimenti interpretativi della realtà attraverso cui è stato possibile articolare visioni di futuro e progettualità condivise.

Montanari si sofferma in particolare sulla nozione di “soggetto collettivo” e sull’analisi marxiana della subordinazione tra “proletariato” e “borghesia” su cui lo studioso tedesco fondò quell’interpretazione della storia come lotta di classe che tutti conosciamo. Pur riconoscendo come questa non sia l’unica interpretazione possibile, la tesi di Montanari è che la categoria di pensiero politico che identifichiamo come “sinistra” “è strettamente legata all’esistenza storico-interpretativa di quel soggetto collettivo”; soggetto che “acquista identità e vita per mezzo della materialità del lavoro consistente nel posto fisso in un luogo determinato: la fabbrica”. Posto fisso e fabbrica in assenza dei quali né quella identitá né quella vita sarebbero più rinnovabili nel pensiero e nell’agire contemporaneo, e la cui scomparsa determinerebbe quindi la fine della politica “di sinistra” come l’hanno interpretata e vissuta la generazione di Montanari e quelle precedenti.

Considerato che l’analisi del nostro filosofo del diritto si rifà alle medesime categorie che la sua tesi considera superate, la sua riflessione ricalca la tipica narrazione neomarxista del sistema produttivo e finanziario del nostro secolo: narrazione secondo cui il primo non è più appartenente ad un luogo, ed il secondo non è più vincolato dal tempo. Spazio e tempo che, contrattisi nell’istantaneità, privano la classe operaia di quella fissità di luoghi e di quella catena di eventi a cui era ancorata la sua identità collettiva, riducendo il lavoratore ad “un mero individuo, lasciato solo, in perenne competizione con altri per guadagnarsi la giornata”.

In questa narrazione dell’ineluttabilità della condizione umana incarnata dal lavoratore nella società capitalista vi sono un determinismo ed un umanesimo non nuovi. Perché a non esser nuove sono la visione rigidamente binaria della realtà che la genera – destra, e sinistra; borghesia, e proletariato; capitale, e sfruttamento – e le sue conclusioni: la prima, pessimistica, secondo cui l’esistenza del lavoratore scardinato dalla tradizionale relazione tra spazio e tempo sarebbe connotata di intrinseca solitudine e perenne competizione; la seconda, salvifica, secondo cui la “destra”, pur perdendo il suo essere “borghese”, ma conservando il profitto, può sopravvivere alleandosi con i robot; la “sinistra”, invece, non può fare a meno degli uomini.”

Quando ad essere tragicamente assenti nella riflessione di Montanari sono proprio gli uomini. Quelli veri. Come i tanti europei che, se fino a tre generazioni fa non avevano alcuna libertà di scelta oltre a quella di farsi braccianti e operai per tutta la vita, grazie alla scolarizzazione e alla mobilità sociale che ne è conseguita oggi si affacciano al futuro con possibilità immaginative e progettuali impensabili per i loro bisnonni. Gli stessi europei che, forti di una cittadinanza transnazionale inconcepibile prima delle grandi catastrofi del ‘900, non ultime quelle causate dalle malformazioni del progetto generato dalla lotta di classe, sono padroni di delocalizzare se stessi ovunque l’Unione Europea offra loro delle alternative alla stagnazione esistenziale. E che anziché ad un sistema educativo “discreto”, confinato ad un piccolo tratto del percorso di vita, hanno sempre più accesso ad opportunità di formazione continua; ossia alla possibilità di emanciparsi dalla dipendenza psicologica e concreta dal “posto fisso”, e di abbracciare il cambiamento come fattore di rafforzamento anziché di indebolimento della propria identità.

I grandi assenti nella riflessione di Montanari sono, insomma, gli europei come me: nipoti di braccianti analfabeti e figli di operai e artigiani sgobboni che hanno appreso attraverso il loro vissuto che “i padroni” non sono per definizione usurpatori; che il capitale non è solo quel mostro astratto che divora i diritti di tutti, ma il mezzo che avanza le idee di alcuni a beneficio di molti; che il lavoro non è solo qualcosa che si trova, ma anche e principalmente qualcosa che si crea. E che alla ricerca di nuove forme di appartenenza alle categorie di destra e sinistra, borghesia e proletariato contrappongono l’intima consapevolezza di essere destinatari di una fortuna piú grande: la libertà di poter non appartenere ad alcuna.

Libertà che non è spietato individualismo. Non è intrinseca solitudine, né condanna all’eterna competizione. È semplicemente l’eredità lasciataci da quei braccianti e da quegli artigiani. Dalle donne e dagli uomini grazie ai quali uno dei piu straordinari progressi di sviluppo umano nella storia è potuto concentrarsi in un continente minuscolo in un lampo di decadi. La cui eredità è toccata a molti, certo non a tutti; sicuramente a meno di quanti la mia generazione deve continuare ad ambire. Ma che non ha nulla a che fare con l’eredità autoconservatrice del capitale della narrazione neomarxista, né tantomeno con quella “radical chic” generata dalla sua figliastra social-populista.

Perché sebbene imperfetta, quella libertà – di fare o non fare l’operaio, di impegnarsi o meno negli studi, di ambire o non ambire ad un posto pubblico, di accettare o non accettare una raccomandazione, di inventare qualcosa o non inventare nulla, di vivere a Roma o ad Amsterdam – è una libertà faticosa, che connota le nostre vite di maggiori incertezze e costante ricerca; che stravolge geografie familiari e ridisegna intere strutture sociali; e che, soprattutto, ridistribuisce la responsabilità di garantire continuità alla nostra sussistenza tra quelle strutture e noi stessi.

Ma in quanto trasversale a qualunque classe di appartenenza e a qualunque etnia e nazione di origine, quella libertà è la più alta categoria di pensiero da cui possa scaturire l’agire politico del nostro secolo. Agire che non può che partire da quella posizione dell’immaginario sociale in cui quella libertà naturalmente ci colloca: il centro liberale, laico, egalitario e pluralista di cui Montanari e l’intero discorso politico italiano sembrano essersi dimenticati. Europeista, lo aggiungo io.