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La prima volta Emanuele ruppe un portafiori vuoto che Angela aveva riposto sulla mensola in cucina. La seconda lanciò il libro che lei era intenta a leggere: glielo prese dalle mani e lo scagliò contro la tv. La terza volta fu la peggiore perché le fece male: le sfilò dalle dita il calice di vino lasciandolo cadere sui suoi piedi nudi: i piccoli frammenti di vetro le volarono addosso. Lei pianse dal dolore. Lui dalla paura. Il giorno dopo, Emanuele decise di chiedere aiuto: gli avevano parlato di un servizio del Comune che lavora con persone “in difficoltà”, perché non controllano la collera. Angela lo accompagnò.

Francesca Garbarino è criminologa e ha contribuito a fondare il “Centro italiano per la promozione della mediazione” che ha base a Milano - ma è attivo anche a Roma, Napoli, Firenze, Piacenza e sta aprire una sede a Bolzano - e di cui è anche vicepresidente. Già il nome dell'associazione suggerisce il senso del nostro lavoro: la gestione della conflittualità prima che delle condotte violente”, spiega Garbarino. Il Centro è animato da un’equipe multidisciplinare di criminologi, psicologi, psicoterapeuti, giuristi e avvocati che si occupano di mediazione dal 1995. “Dunque il lavoro è in prima battuta sulla prevenzione delle condotte violente, sul trattamento di chi le agisce da un lato e sul sostegno a chi le subisce dall’altro”. In alcuni casi, tuttavia, in cui “la condotta violenta in ambito relazionale è tale da configurare un reato commesso da una persona nei confronti di un’altra”, non ci sono margini per mediare”. È la legge a non ammetterlo, tra l’altro.

La Convenzione di Istanbul, all’articolo 48 vieta proprio il ricorso “a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione”. E infatti Garbarino spiega: “Ovviamente non usiamo lo strumento della mediazione quando ci sono pratiche di violenza in corso ma quando la situazione è conflittuale e alla violenza non ci si è ancora arrivati”.

Abbiamo iniziato a lavorare con le vittime e poi con gli  autori”, racconta: “Nel lavoro con entrambi emergono meccanismi difensivi: in particolare, nell’ambito della violenza domestica, dove sono implicati rapporti affettivi, sia l’uno che l’altro faticano a vedere la situazione nella sua oggettività e rischiano di negare o minimizzare  la violenza”. Ecco perché il Centro italiano per la promozione della mediazione ha iniziato ad occuparsi di “entrambi i versanti” - di autori e di vittime - offrendo loro “uno spazio di sostegno e di trattamento”. Uno spazio di ascolto e di trattamento che è “elettivamente di gruppo” (si tratta  di gruppi costituiti da circa 15 persone), “per la prevenzione della recidiva”, spiega Garbarino, “con un’impostazione criminologica - che, dunque, considera il maggior numero di aspetti nell’affrontare questi temi - a cui affiancano colloqui individuali e altre “offerte trattamentali”. Quest’approccio, a quanto pare, non sempre è condiviso da chi si occupa di violenza di genere: le parole di Francesca Garbarino, a questo punto, vengono fuori a fatica.  Perché faticoso deve essere lo sforzo, quotidiano, di tenere tutto insieme. Poi, la voce si schiarisce per diventare più sicura appena entra nel merito: “Secondo la nostra esperienza, la connessione tra il servizio dedicato alle vittime e quello dedicato al trattamento degli autori di reato costituisce un punto di forza”.

E infatti a Milano, il Cipm gestisce per il Comune ben tre servizi in connessione tra loro: il “Servizio per la mediazione sociale e penale” (nato per primo e che riguarda un’alta conflittualità, intra-famigliare ma anche di altro tipo, ad esempio di vicinato), un “Servizio di sostegno psicotraumatologico per le vittime di reato” (che offre alle vittime sia un sostegno di tipo psicologico che di tipo legale, in rete con tutti gli altri servizi sul territorio dedicati alla violenza di genere) e un servizio, attivo dal 2009 in seguito all’approvazione della legge sullo stalking, che si chiama “Presidio criminologico territoriale” (di trattamento degli autori di violenza). Al Presidio giungono persone - come Emanuele - con la fedina penale pulita ma con problemi, “perché non trattengono gli scatti d’ira, ad esempio, e chiedono aiuto”: vi ricorre anche chi è stato già denunciato oppure chi è agli arresti domiciliari o è già uscito dal carcere.

A tutti i servizi - che Garbarino definisce “a bassa soglia” proprio perché comprendono numerosi profili di problematicità - è possibile accedere tramite invio dalle istituzioni ma anche tramite passaparola. “L’accesso è libero, il cittadino arriva autonomamente: si rivolgono a noi sia la donna che si rende conto di un eccesso di controllo manifestato dal proprio compagno che il partner portato da lei”. E la connessione tra i diversi servizi è utile, soprattutto, perché favorisce l’emersione di casi che altrimenti rimarrebbero sotto traccia. Spiega meglio la criminologa: “Pensi, ad esempio, a una vittima che non si rende conto di esserlo e viene a chiedere una mediazione con il compagno. Ecco, noi intercettiamo la situazione di vittimizzazione e questo è il classico caso in cui la mediazione non è possibile, perché creerebbe una vittimizzazione secondaria” (che riguarda chi è già vittima di violenza e dunque un lavoro di mediazione provocherebbe successive traumatizzazioni). In questi casi, quando vi è impossibilità a mediare, il percorso ovviamente non si interrompe, e “la persona è inviata al servizio per il sostegno delle vittime”. Ma “può accadere, per esempio, che a chiedere una mediazione sia uno stalker”, dice Garbarino. Un profilo che, naturalmente, è assai facile da smascherare. E allora “il percorso che si propone è presso il Presidio Criminologico”.

Non basta. Il Centro gestisce, anche uno “Sportello antistalking” che offre aiuto a vittime e autori di questo tipo di reato. E dal 2005, “gestiamo al carcere di Bollate un progetto - si chiama Unità di trattamento intensificato - rivolto specificatamente agli autori di reato sessuale. Presso il carcere di san Vittore - e a breve quello di Opera - infine, gestiamo progetti di trattamento di autori di violenza domestica. Anche per loro c’è la possibilità, al termine della pena, di seguire dei gruppi presso il Presidio Criminologico Territoriale.

L’unica certezza, in questa storia, è che “non esiste un solo profilo di uomo maltrattante” (su dieci autori di reato violento in ambito domestico, solo uno è una donna,  “proporzione che tendenzialmente rispecchia tutte le statistiche criminologiche di genere”): estrazione sociale e livello di istruzione sono trasversali. “Tracciare un profilo  verosimile di persona violenta significherebbe correre il rischio di mettere insieme aspetti epistemologicamente non assimilabili”, dice con nettezza la criminologa. “Ciò che accomuna queste persone è la commissione di un reato violento e una tendenziale difficoltà a vivere una relazione - in particolare in una relazione con una donna - e noi ci occupiamo proprio di violenza relazionale, non solo di violenza di genere”. Ed è proprio la commissione di un atto violento, al momento  in cui lo si compie, a illudere chi lo commette di riuscire a controllare e dominare la situazione. Certo, tra i fattori che conducono ad atti violenti c’è quello culturale. Più precisamente, è sempre presente una certa “subcultura dell’ineguaglianza di genere”: “Statisticamente nell’ambito domestico la violenza viene agita soprattutto nell’ambito delle relazioni di coppia, anche omosessuali, ma vi sono relazioni violente tra figli e genitori, per esempio, o tra fratelli”, sottolinea Garbarino. 

C’è qualcosa, però, che non va nella narrazione che di questo mondo tanto articolato si fa sui media, secondo la criminologa. E quello che non va, non riguarda tanto i ‘codici’ - sempre uguali, nella sostanza - con cui sono raccontati i fatti di cronaca. “Un punto comprensibilmente critico è il fatto che l’attenzione sia concentrata solo sulla vittima e sulla sua necessità di essere aiutata. Questo è un punto imprescindibile”, dice Garbarino, “ma alla luce delle esperienze vissute, appare fondamentale tenere sempre aperta la possibilità di trattamento all’autore di reato”. Viceversa, esiste una tendenza a demonizzare quest’ultimo: “E questo non aiuta. Non solo: crea una barriera che convince il ‘mondo’ dell’esistenza di un mostro”. Il problema, così, è allontanato, “non viene affrontato: voglio dire che il mostro è tra di noi e questa cultura riguarda un po’ tutti. Il mostrificare non fa chiedere aiuto  e al contrario favorisce l’idea di un’impossibilità di cambiamento”. Un modo semplificante e pericoloso di proporre il problema.

Eppure le regole oggi ci sono e sono oramai avanzate: a parte la Convenzione di Istanbul, è stato introdotto nel 2009 il reato di stalking (“atti persecutori”) prima non perseguibile, e la legge n.119 del 2013 dà una possibilità enorme di affrontare la questione in modo articolato (il questore stesso ha prerogative anche pratiche, ad esempio, di segnalazione dei presidi sul territorio). Ecco cosa può aiutare a favorire il cambiamento: “dare maggiore visibilità e sostegno ai servizi rivolti agli autori di violenza può aiutare anche le vittime. E incentivare sul piano legale le persone maltrattanti li aiuta ad accedere ai percorsi di trattamento”.

Perché per prevenire e affrontare la violenza in maniera complessiva ed efficace, è necessario un approccio che metta al centro “l’educazione alla relazione”. Mediare non vuol dire pacificare. Mediare vuol dire intervenire in maniera concreta e mirata. Per proteggere le vittime e dare una possibilità di cambiamento a chi chiede aiuto.

@iladonatio