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C'è una forte analogia tra il tema dell’eutanasia e quello della maternità surrogata nel nostro paese. Un’analogia non certo sotto il profilo della percezione pubblica o del sentire sociale, giacché mentre sull’eutanasia è minoritaria la parte degli "ostili", il dibattito sulla seconda riveste ancora i contorni di uno scontro violentissimo, in cui la possibilità stessa di poterne parlare è pressoché preclusa all’accesso.

È un’analogia che più che altro si fonda su un’osservazione di fatto: entrambi gli istituti sono, a oggi, vietati. Entrambi gli istituti sono, a oggi (e salvo, per il primo, un cambio di rotta interpretativo sull’aiuto al suicidio assistito), puniti severamente sul piano penale. In entrambi i casi, quindi, centinaia di persone si recano - sono costrette a recarsi - ogni anno all'estero per poter realizzare le proprie volontà: di vita in un caso, di morte nell'altro. In entrambi i casi, centinaia di persone, di italiani, viaggiano verso i paesi in cui tali pratiche sono consentite dalla legge (dalla legge, non da prassi tribali).

In entrambi i casi, al loro ritorno, i familiari di persone decedute in cliniche svizzere o le coppie di neo genitori possono doversela vedere con i giudici. E questo perché, benché esaudite all’estero, tali pratiche attivano inevitabilmente delle ripercussioni all’interno di un paese abituato a proibire. Il caso di Dj Fabo, e l'aiuto prestato da Marco Cappato, è noto. Il processo è in corso, il rischio è fino a dodici anni di carcere per aver accompagnato il dj a morire in Svizzera.

Meno noto, forse, è il caso sottoposto ieri alla decisione della Corte costituzionale, quello di una donna alla quale è stato negato il legame materno con il figlio nato da gestazione per altri all’estero. Una donna che, a causa di un precedente tumore, non avrebbe potuto portare avanti una gravidanza. Siamo nel 2012. La donna e suo marito, padre biologico del bambino nato con la tecnica della gestazione per altri, richiedono, al rientro in Italia, la trascrizione dell’atto di nascita, nel quale, secondo le leggi del paese in cui la pratica è stata svolta, entrambi risultano genitori. L’ufficio di stato civile di Milano segnala il caso alla Procura, sospettando che si tratti di un caso di gestazione per altri. La coppia non lo nega, né mai lo negherà.

Il pubblico ministero, in sede civile, chiede di togliere il bambino alla coppia milanese e di darlo in adozione. Nel frattempo, la coppia richiede nuovamente la trascrizione dell'atto e questa volta l’ufficiale trascrive. Dopo qualche mese il Tribunale dei minori dichiara il bimbo non adottabile, perché il test del Dna ha confermato che l’uomo è il padre genetico del bambino e per giunta la coppia è sposata. Il Pubblico ministero solleva, però, istanza affinché venga disconosciuta la madre, che non ha legami biologici con lo stesso. Nel 2014, il Tribunale di Milano accoglie la richiesta, stabilisce che il bimbo non è figlio della donna che nel frattempo lo ha cresciuto, e nomina un curatore. La donna fa ricorso contro la decisione. Il curatore (anzi, la curatrice) sostiene fortemente le ragioni della coppia.

La Corte d’appello di Milano, nel 2016, si rivolge alla Corte costituzionale affinché valuti la costituzionalità dell’art. 263 del codice civile, che disciplina l'azione d’impugnazione volta a rimuovere lo stato di figlio già attribuito a un minore, in considerazione del suo difetto di veridicità. Nello specifico, i legali della coppia e la curatrice chiedono alla Corte di dichiarare la norma costituzionalmente illegittima, «nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità del figlio minorenne possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso». Si ritiene in sostanza che, ove si dovesse negare tale possibilità, l'accoglimento della domanda rimarrebbe condizionato unicamente all'accertamento della non veridicità del riconoscimento. Attraverso l'intervento invocato viene, quindi, denunciata l'irragionevolezza di un automatismo decisorio che impedirebbe di tenere conto degli interessi in gioco.

Ieri la decisione della Consulta. Questa, pur ritenendo la questione pienamente ammissibile (a differenza di quanto sostenuto dall’Avvocatura di Stato), non reputa la questione sollevata fondata, perché occorre sempre avere riguardo all’interesse del minore nonostante la norma invocata non lo dica espressamente. «L'affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell'ordinamento sia interno, sia internazionale e questa Corte, sin da epoca risalente, ha contribuito a tale radicamento», afferma a chiare lettere. E si spinge oltre, indicando la strada da seguire: «non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore». Non è possibile, quindi, togliere automaticamente i figli ai genitori che li hanno avuti con tecniche di maternità surrogata all’estero. «Ma va parimenti escluso che bilanciare quell'esigenza», di verità in caso di maternità surrogata, «con l’interesse del minore comporti l'automatica cancellazione dell'una in nome dell'altro». È il Tribunale dei minori, allora, che deve valutare caso per caso, quale sia l’interesse prevalente, con «un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore».

Toccherà ora alla Corte di Appello di Milano trovare quel “giusto bilanciamento”. Questa era la questione che la Corte costituzionale è stata chiamata a risolvere, e questa è stata la sua decisione. Non era in alcun modo in discussione il divieto, che resta punibile penalmente in caso di trasgressione, di accedere a tecniche di maternità surrogata in Italia. Il dato è importante da sottolineare, perché a fronte di apocalittici titoli di quotidiani (“maternità surrogata, offesa intollerabile alla donna”, riprendendo unicamente il giudizio espresso tra due parentesi dal Giudice relatore Giuliano Amato) e di dichiarazioni di esponenti politici (“una vittoria”, ha postato Adinolfi su facebook), mi verrebbe da dire, un po’ causticamente, che chi non è in grado di leggere una sentenza forse è inutile che si cimenti a farlo su questioni di tale importanza.

Forse, e più responsabilmente, la riflessione che occorrerebbe fare è un'altra: per quanto tempo ancora dobbiamo vedere sfilare le nostre vite, le nostre scelte, i nostri desideri, sulle passarelle dei tritacarne mediatici e delle aule di giustizia? Certo si tratta di aule dove, in questi ultimi anni, abbiamo avuto la fortuna di incontrare giudici assennati, che hanno messo davanti, nel decidere, i valori di dignità, di libertà e di responsabilità, contenuti nella Costituzione e nelle carte internazionali. Ma se domani non fosse più così? E, ancora: non è forse arrivato il tempo di aprire il lucchetto del dibattito pubblico, in maniera franca, argomentata e leale, cercando soluzioni per regolare e riconoscere nuovi nuclei familiari già presenti nel nostro paese, piuttosto che alimentare l’ipocrisia per cui “vai pure dove è consentito, poi al ritorno ci penserà un giudice”?