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La legislatura più disgraziata della Seconda Repubblica, nata mezza morta dopo la “non vittoria” della coalizione di sinistra e l’esplosione del voto grillino, si concluderà a scadenza naturale dopo essersi rivelata, da molti punti di vista, una delle più produttive della storia recente. La controversa produttività delle Camere, che la sconfitta del referendum costituzionale non cancella, ma ribalta di significato (la spinta democraticamente vincente è a conservare, non a riformare), ha trovato una indubitabile evidenza anche sui temi sensibili dei diritti e delle libertà individuali.

Sia quanto è stato realizzato (dal divorzio breve, alle unioni civili) sia quanto rimarrà irrealizzato (dalla legalizzazione della cannabis allo ius culturae) fa di questa la legislatura culturalmente più viva della storia recente, per merito di personaggi abbastanza inaspettati. In primo luogo il giovane scout cattolico, che fino a pochi anni fa flirtava con le piazze del Family Day, Matteo Renzi. E poi il vecchio uomo forte del potere berlusconiano nella stagione dei “valori non negoziabili”, Denis Verdini, decisivo per aprire la strada al Senato alle unioni civili e oggi, a poche settimane dalla fine della legislatura, al testamento biologico.

A prevalere nell’atteggiamento di questi due personaggi non sono stati solo calcoli opportunistici o strategie di potere, ma anche la consapevolezza che la gran parte dei cosiddetti “diritti” hanno cessato di rappresentare temi divisivi e che è molto più divisiva la pretesa di ancorare la società a codici giuridico-morali a cui essa si è culturalmente già sottratta e che vive come insopportabili costrizioni. Dal divorzio breve al fine vita non c’è dubbio che la generalità degli italiani pensa che questi diritti siano tali al di là di ogni riconoscimento giuridico e sono portati istintivamente a premiare chi esige che siano finalmente riconosciuti. Si tratta di un premio simbolico, perché, come è noto, sul piano pratico i cosiddetti diritti non sono istanze elettoralmente preminenti.

Lo ius culturae, cioè il diritto di cittadinanza per bambini nati o vissuti in Italia, sfugge a questa logica perchè continua a essere percepito come una costruzione politica, non come un diritto individuale, quando non addirittura come un progetto di dominio, il cavallo di Troia della cosiddetta “sostituzione” etnica. Anche alcuni sostenitori di questa riforma e moltissimi suoi oppositori non volgarmente razzisti eccepiscono la sua natura ancipite, come se in questa scelta il diritto degli individui e quelli delle comunità fossero indissolubilmente intrecciati e non disgiungibili.

La mia impressione è che in questo atteggiamento ci sia un tutt’altro che impercettibile scivolamento in una logica “collettivistica”, che è logicamente nemica di ogni diritto perchè ne subordina il riconoscimento a criteri di compatibilità sociale (sia essa di tipo religioso, culturale, economico…). Qualunque diritto giuridicamente riconosciuto e regolamentato implica il voto del legislatore e quindi una scelta politica (se no i diritti sarebbero confinati al campo delle libertà interiori). Forse che il diritto al divorzio è stato semplicemente liberato dalle coltri dell’oscurantismo e non invece positivamente istituito e disciplinato? La differenza tra un astratto e potenzialmente “totalitario” costruttivismo giuridico e la difesa liberale dei diritti non passa dall’utilizzo o meno del potere legislativo, ma dal suo asservimento a principi che fanno dei diritti riconosciuti alla persona una mera funzione del supposto equilibrio ideale di una comunità politica.

I bambini nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri non sono cittadini italiani, a differenza dei loro coetanei, per la stessa ragione per cui i figli illegittimi, fino a pochissimi anni fa, non avevano tutti i diritti di figli, a differenza dei loro fratelli: perché in un caso o nell’altro la loro discriminazione può considerarsi funzionale alla coesione degli istituti sociali esistenti, a partire dalla famiglia, per arrivare alla comunità nazionale. Se un bambino non è semplicemente un bambino e un figlio non è semplicemente un figlio, ma un ingranaggio di una macchina più grande e più complessa, cessa di essere semplicemente un soggetto di diritto e deve essere logicamente trattato come un “mezzo”.

Dunque il diritto alla cittadinanza stabilito dalla legge che in questa legislatura molto difficilmente sarà approvata non è meno politico del “non diritto” stabilito dalla legge attualmente in vigore, in cui a prevalere, prima di ogni considerazione culturale, è il dato etnico-razziale. È semplicemente un diritto più impopolare, come lo era - per fare un altro esempio - quello all’uguaglianza giuridica delle mogli all’interno della cosiddetta famiglia tradizionale fino all’affermazione della cultura femminista. E non è un caso che a tenere alta la bandiera di questo diritto “difficile” sia proprio Emma Bonino, la protagonista della stagione più difficile (ma anche più profetica) delle battaglie civili in Italia.

@carmelopalma