RosaParks

La legalità è un concetto che nasce nell’ambito giuridico, ma che in realtà si riflette in quasi tutti i contesti sociali in cui si muovono gli individui; essa fa parte del patrimonio della coscienza di ognuno, pur declinandosi in modo diverso per ciascuno.

L’attuale concezione dello Stato di diritto è figlia del periodo illuminista – in particolare delle teorie di Rousseau – momento storico a partire dal quale si sostituisce la forza con il diritto: al fine di riequilibrare le ingiustizie che facevano prevalere la legge del più forte, si attribuisce il potere punitivo allo Stato, che diviene l’unico soggetto che lo può legittimamente esercitare, escludendo così l’autotutela da parte singoli.

Il concetto di legalità non è né fisso né immodificabile, si potrebbe anzi definire un concetto liquido, che si adatta alla società e spesso ne è lo specchio, con la sua mutevolezza; basti pensare all’abrogazione, nel 1981, degli artt. 544 c.p. e 587 c.p. sul matrimonio riparatore e il delitto d’onore. Un altro esempio è il famigerato progetto, attuato in Svizzera dagli anni Venti del secolo scorso al 1974, chiamato Kinder der Landstrasse, nato inizialmente per recuperare bambini di strada e poi divenuto, successivamente al secondo dopoguerra, un barbaro programma di eugenetica per eliminare completamente l’etnia Jenisch (una delle maggiori popolazioni nomadi insieme a Sinti e Rom), attuata strappando alle famiglie i figli ancora neonati, facendoli crescere in istituti e adottare da famiglie elvetiche, sottoponendoli a elettroshock e altri trattamenti psichiatrici disumani e degradanti con l’obiettivo di eliminare ogni residuo cerebrale della loro etnia di origine e farli diventare “normali”.

Gli esempi dimostrano come ciò che ieri era legale, oggi può non esserlo, e lo stesso può accadere viceversa. Il diritto quasi sempre è la proiezione in termini di norme della coscienza politico-sociale di un determinato gruppo di persone in un dato contesto spazio-temporale, e quindi muta con il variare della sensibilità sociale, seppure in ritardo rispetto ad essa.

La legalità è normalmente definita come conformità all’ordinamento giuridico, ma questo varia secondo molti parametri. Di quelli temporali si è già detto, ecco quelli geografici: il matrimonio tra un cattolico e un’ebrea, nell’anno 1938, era legale in Francia e illegale in Italia per l’emanazione delle leggi razziali. Si trovano ancora quelli personali, basti pensare che sino alla fine degli anni Sessanta, mentre la donna era punita per il reato di adulterio (la relazione adulterina costituiva un’aggravante del reato), l’uomo era punibile solo se portava a vivere la concubina nella casa coniugale o notoriamente (quindi con pubblico scandalo) altrove. E così via, con ogni nuovo paradigma di riferimento, può accadere che lo stesso comportamento, legale secondo alcuni parametri, non lo sia alla luce di altri, ed ecco, da qui, che la legalità può essere considerata un concetto liquido e variabile.

Da ciò l’inevitabile domanda: se la legalità è conformità all’ordinamento, tutto ciò che è legale è giusto (o meglio, secondo giustizia) e tutto ciò che è giusto è anche legale?

Prendiamo il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, uno dei pianificatori della soluzione finale. Processato per crimini contro l’umanità dopo essere stato scovato e rapito dal Mossad a Buenos Aires nel 1960 (in Argentina allora non esisteva l’estradizione), respinse tutte le accuse proclamandosi innocente, avendo soltanto obbedito agli ordini come ogni buon soldato; ordini che erano, tra l’altro, conformi alle leggi in vigore nella Germania dell’epoca. Leggendo le arringhe dell’avvocato di Eichmann, si scorge come la linea difensiva sia stata sostanzialmente mutuata da quella utilizzata dagli altri gerarchi processati nel 1945 a Norimberga, ossia la mancanza di antigiuridicità, e quindi di colpevolezza, per avere osservato le leggi dello Stato.

Val la pena chiedersi: tutto ciò che è cristallizzato nelle norme giuridiche è legale (perché ci deriva dallo Stato, unico monopolista della politica criminale) e quindi la legalità è esclusivamente conformità alla norma, o esiste un (meta)concetto di legalità che trascende quella in senso stretto della quale si è ora dato conto? Detto diversamente: siamo sicuri che un comportamento, solo perché avallato o non punito dalla legge sia legale, o vi è un principio di legalità superiore (che finisce per somigliare al senso di giustizia astrattamente inteso) al quale le condotte umane dovrebbero ispirarsi e conformarsi?

La questione è fondamentale, dacché se i giudici di Eichmann avessero sposato la tesi del “legale perché secondo la legge” vigente al tempo in Germania, l’avrebbero mandato assolto, in quanto era non solo legittimo, ma addirittura incoraggiato porre in essere politiche di sterminio razziale; come noto, il principio accolto è stato l’opposto, ossia che esistono azioni universalmente criminali, secondo il comune sentire, anche se consentite in un determinato contesto spazio-temporale.

Il dubbio che sorge, ragionando a ritroso, dato che i giudici di Eichmann hanno argomentato che determinate condotte sono odiose e contro il sentimento umano per la maggioranza dei popoli, è cosa si intenda per comune sentire. Il ragionamento fatto dalla Corte tende ad una eccessiva semplificazione, dato che in alcuni regimi, dove alla popolazione viene fatto un completo “lavaggio del cervello”, il comune sentire che avrebbe permesso di condannare un dato comportamento, viene sostituito con un “comune sentire” appiattito sulla linea ideologica del regime stesso. Esempio chiaro è la Corea del Nord: un Paese isolato da oltre settant’anni anni, dove i bambini a scuola fanno lezione su libri che raffigurano gli stranieri come strani esseri dalle sembianze animalesche e spesso i fuoriusciti sono talmente spaesati dal vedere il mondo esterno, che rientrano nel Paese. Lo Stato è intervenuto in maniera talmente massiccia sul pensiero delle masse che la coscienza dell’individuo è stata completamente sostituita dalla coscienza di Stato.

Può pensare autonomamente solo chi ha la possibilità di utilizzare la diversità, in qualsiasi modo declinata, come metro di raffronto: se io vedo solo, durante tutta la vita, tavoli di colore blu, sono convinta che il tavolo è di colore blu e solo blu possa essere, e tramanderò questa regola ai posteri. Ecco che la mancanza di alternativa sopprime la scelta, e con l’eliminazione della possibilità di decidere una cosa anziché un’altra, muore la libertà politica e intellettuale (la prima è un corollario della seconda).

Come si è salvata la coscienza democratica degli Stati ai regimi totalitari? Attraverso la coscienza individuale delle singole persone. Ma riflettiamo: lo Stato può incidere sulla sensibilità dell’individuo in diversi aspetti: in modo totalizzante, con un regime che, a partire dalla propaganda e poi con la repressione elimina il dissenso, intervenendo altresì sull’istruzione per forgiare gli adulti di domani uniformandoli all’ideologia di Stato, oppure può incidere, anche all’interno di uno Stato democratico, con singole norme, di portata tale, però da turbare la coscienza del singolo. Di fronte a queste regole, l’individuo, in base alla personale sensibilità, può vedere compressa in modo inaccettabile la propria libertà di autodeterminazione, tanto da decidere, come gesto di ribellione, di non conformare il suo comportamento alla regola: nasce così la disobbedienza civile.

La disobbedienza è l’altra faccia della medaglia della partecipazione attiva alla vita politica dello Stato: si mette in atto quando l’individuo si sente “tradito” nei suoi valori democratici, o quando vede erosi i suoi diritti da atti che ritiene giuridicamente illegali o, anche se giuridicamente legali, moralmente illegali, secondo una concezione laica di coscienza, intesa come capacità di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è (ovviamente in senso individuale).

In questa prospettiva, la partecipazione attiva viene meno generando il dissenso, che può essere espresso attraverso la disobbedienza civile o la resistenza; la prima è la mancata attuazione della norma da parte del cittadino con la propria condotta, è il superamento della linea oltre alla quale non si è disposti a collaborare (per dirla con i concetti di Paul Goodman), la seconda è la contrapposizione frontale al precetto. Il concetto di disobbedienza è inscindibilmente connesso con la coscienza umana; uno dei primi e più famosi “disubbedienti” è Socrate, al quale era stato proibito di esporre le sue dissertazioni in pubblico, perché, mettendo in dubbio i valori stabiliti della polis, erano ritenute pericolose e sediziose. Rifiutando, si è collocato in una posizione non conforme a quella imposta dal potere costituito, per cui è stato condannato a morte. Più l’autorità dello Stato è forte e più gli atti di disobbedienza sono infrequenti e messi in atto da pochi individui, tuttavia è proprio in questi casi che assumono una portata dirompente.

La disobbedienza civile è stata, per alcuni illustri filosofi, l’unico modo per poter far sopravvivere il loro pensiero attraverso i secoli: un esempio su tutti, Giordano Bruno. Ci si chiederà come mai Giordano Bruno sia dovuto morire sul rogo affinché non si perdesse memoria del suo pensiero e della sua figura nei tempi futuri, mentre Galileo ha abiurato e nonostante ciò il suo la sue teorie non si sono perse. Il motivo è che le teorie scientifiche sono comunque empiricamente dimostrabili (nel senso che Galileo sapeva benissimo che anche anni più tardi qualcuno avrebbe potuto dimostrare, con il progresso scientifico, le stesse sue scoperte, perché le evidenze scientifiche non sono opinabili come le idee, il pensiero politico, filosofico, umano di una persona, che non possono essere riproposti nello stesso identico modo da altre persone. Ecco perché Giordano Bruno, per fare pervenire sino a noi il suo pensiero, ha dovuto non sconfessarlo sapendo così di andare incontro all’estremo sacrificio).

Thoreau fu il primo a teorizzare la disobbedienza civile in un suo celebre saggio a metà Ottocento (On the duty of Civil Disobedience), ma è con il Novecento che l’umanità ha preso coscienza della forza dirompente di questa forma così efficace di dissenso. Abbiamo parecchi esempi diversi di come può manifestarsi la disobbedienza civile: a livello di coinvolgimento di un’intera nazione, come l’India al tempo di Gandhi (che teorizza la resistenza passiva, particolare sottocategoria di disobbedienza civile), a livello etnico, come la protesta nera guidata da Martin Luther King cui ha dato il via il gesto di Rosa Parks, rifiutatasi di cedere il posto a un uomo bianco salito dopo di lei sull’autobus a Montgomery, a livello generazionale, come i giovani statunitensi che facevano obiezione di coscienza perché non condividevano ideologicamente la guerra in Vietnam, o ancora a livello di manifestazione individuale di dissenso, sia pure incarnando il sentimento di una nazione, come l’anonimo che nel 1989 a Pechino ha fermato la colonna dei carri armati in piazza Tienanmen.

La disobbedienza civile è un modo per manifestare dissenso senza porsi in lotta frontale armata contro lo Stato: è una mancata uniformazione alla norma imposta, spesso ben più destabilizzante di una lotta armata, giacché crea molto più consenso proprio per lo spirito libertario da cui trae origine. Di fronte al sopruso e alla prevaricazione della coscienza individuale da parte del potere costituito, secondo Rosa Luxemburg, «esistono infatti due specie di organismi viventi, gli uni provvisti di una spina dorsale che camminano e a volte corrono. Gli altri, essendo invertebrati, strisciano o aderiscono».

Gabriele D'Annunzio ci ha dato un esempio di disubbidienza con la famosa Impresa di Fiume nel 1919, annettendo – in contrapposizione netta con il Governo – la città, contesa con la Jugoslavia, al Regno, riorganizzandola amministrativamente e politicamente, e dimostrando per oltre un anno quanto lo Stato italiano fosse debole dopo la vittoria mutilata all’esito della Grande guerra.

Nella storia recente del nostro Paese, gli esempi più numerosi di disobbedienza civile ci provengono dalla vocazione libertaria, liberale e laica che ispira il Partito Radicale, i cui più autorevoli membri, a partire dalla metà degli anni Cinquanta hanno fatto della disobbedienza civile l’arma democratica più efficace nella protesta contro le norme dello Stato ritenute in antitesi ai principi ispiratori del movimento.

La disobbedienza civile è politica e non può non esserlo: è l’ultimo baluardo della resistenza individuale esercitata in modo non violento, la più democratica manifestazione di dissenso contro la prevaricazione e l’ingerenza dello Stato nella vita e nella coscienza del singolo. Come ebbe a dire Oriana Fallaci, «i disubbidienti sono il sale della libertà».