Buone ragioni liberali contro lo stigma sociale nei fallimenti
Diritto e libertà
Tra i valori liberali c’è di certo quello del Contratto, della condivisione e reciprocità di un impegno all’adempimento di precisi doveri – Pacta sunt servanda – cui segue, come possibile corollario, la penale per la violazione di tali doveri ed impegni. Ma principio liberale è anche quello per il quale il fallimento dell’impresa, l’assunzione di responsabilità per un rischio che si è concretizzato, non è condanna irreversibile e ciò perché chiunque ha diritto di riprovarci, di mettersi nuovamente alla prova – senza biasimo sociale - e di “resistere” attraverso il progetto, il lavoro, alla dura legge di caducità e termine che domina le cose umane periture.
E per questo l’imprenditore fallito – e non solo lui ma tutti i possibili sconfitti della storia – non è tale per sempre, ed è giusto riconoscergli, secondo regole certe, tanto il perdono quanto l’oblio. In tal senso va proprio in questa direzione la legge delega per il riordino del diritto fallimentare – approvata in via definitiva dal Senato l’11 ottobre scorso – che anche terminologicamente consegna al passato il lemma fallimento e disciplina la crisi d’azienda, e la sua liquidazione, in modo non espiativo né moralistico, interpretando le insolvenze come evenienze fisiologiche nel ciclo di un'impresa che affronta la dura competizione del mercato libero.
E’ stata Hannah Arendt - in Vita Activa. La condizione umana (1959), trad. it. pubblicata da Bompiani – a riportare in auge queste categorie esistenziali, propriamente occidentali, che da sempre hanno strutturato il nostro mondo, ne hanno frenato la precarietà naturale, ne determinano la ricchezza e fecondità sostenendo le diverse società.
Sono la promessa ed il perdono, quindi, a “frenare” il tempo: la promessa che ci vincola ad un qui ed ora ipostatizzato per il futuro dall’impegno per l’adempimento, dalla fiducia nel proprio lavoro, dal consenso altrui conquistato con la capacità di agire, di discutere e di fare e che si pone come rimedio all’imprevedibilità e alla caoticità del futuro; ed il perdono come viatico per la ripartenza, come decisione che oblia il passato, che scardina la dittatura dei fatti, dell’accaduto, per consentire ai rapporti umani, alla società, un “di più” innaturale che sconfessa la ferrea logica della causalità, che consente una redenzione possibile, una via d’uscita umana dall’aporia dell’irreversibilità.
Un mondo libero, quindi, che resiste all’automatismo delle leggi fisiche (ma anche ideologiche) ed impone un katechon, un freno al flusso escatologico e all’arroganza di ogni potere – e qui penso alla modernità occidentale come esito di una tradizione - salvaguardando l’individuo e le sue libertà attraverso la forma dell’unità politica quale monopolio della forza che neutralizza la violenza sociale e dello stato di diritto come argine alla discrezionalità del potente.
Di nuovo la Arendt ci suggerisce che è stato un “rovesciamento” di prospettiva a svalutare la grande quanto terribile idea antica di una Politica come aspirazione all’immortalità mondana delle istituzioni, come summa di “gesta” rappresentate come eterne. È stata - secondo la filosofa tedesca ed ebrea - la “lieta novella” cristiana dell’ immortalità e sacralità della vita individuale (novella così tragicamente vissuta ed agognata nel Novecento anche da Unamuno) ad aver rovesciato l’antica relazione tra uomo e cosmo: perché è il mondo, con tutti i suoi signori, ad essere condannato alla finitezza (mentre per i greci è “infinito”) non la speranza umana, non il valore del singolo.
La politica, quindi, non serve, attraverso la glorificazione del potere, a mantenerne vivo il fuoco perenne del conflitto creatore ma è più prosaicamente atto spirituale e pratico che tende, nella modulazione degli interessi, ad un bene comune mai davvero esperibile del tutto. Lo Stato sovrano moderno, dunque, nato come Dio mortale porta in sé il segno di una precarietà che non lo rende fine a se stesso, che lo laicizza.
Il Leviatano, infatti, sbilanciato dalla trascendenza di senso e legittimità che “apre” verso l’alto il sistema a cristallo di Hobbes - fondato sulle direttrici obbedienza e protezione - è stato progressivamente interpretato, a seguito delle sanguinose neutralizzazioni degli idoli sostitutivi partito/classe/razza, come Kàysar ma non come Kýrios.
Tale legame tra stato laico, liberalismo, cristianesimo e secolarizzazione, intesa come processo di purificazione del sacro, è stato da ultimo sottolineato da un altro grande maestro liberale, Dario Antiseri, nel suo L’invenzione cristiana della laicità, edito quest’anno da Rubbettino. Il potere politico, dunque, non è il padrone della coscienza degli individui ed il cosmo, la natura – anch’essa desacralizzata dalla “buona novella” – divengono sempre più oggetto di indagine scientifica, liberando le forze spontanee ed emancipate della ricerca.
La Vita activa, quindi, l’impegno fattivo indirizzato verso l’obiettivo possibile e concreto si è strutturato, da posizioni teologiche, con l’affermarsi di una laicità d’approccio che sconfessa ogni statolatria collettivistica e rassicurante, ogni Reich millenario, ogni utopismo edificante il paradiso in terra che, nell’esaltazione di una necessità storica interpretata come naturale, ha sempre solo ottenuto l’effetto di annichilire l’individuo, il suo associarsi e dissociarsi libero e spontaneo, di mettere da parte un diritto storicamente determinatosi nelle consuetudini ed usi di comunità cui si contrappone la pianificazione razionale di chi si rappresenta in possesso delle carte del destino.
Discutere dunque di Mano invisibile che anima la società aperta, dal suo primo strutturarsi in Occidente ad oggi, ha senso solo nel momento i cui se ne intuisce il nucleo teologico politico più vero: non è l’intervento provvidenziale di un senso cosmico preciso, ripetitivo, eterno e gnosticamente scrutabile dai migliori e dagli eletti ma è il risultato libero - non voluto nelle sue conseguenze più generali e proficue – delle promesse e del perdono che intervengono tra gli uomini che scambiano, patteggiano, cedono, rimettono e tollerano.
Ed è giusto in tal senso che la già citata legge delega per la riforma della disciplina della crisi di impresa, al fine di interrompere ogni possibile automatismo punitivo, distingua bene tra stato di crisi e di insolvenza e spinga decisivamente verso la trattazione primaria delle proposte volte ad attraversare la crisi assicurando la continuità produttiva. Si ricorrerà, quindi, alla liquidazione giudiziale solo nel caso si dimostri carente il progetto di un'idonea soluzione alternativa.
Sempre improntata alla possibile ripartenza è, inoltre, la previsione del riordino degli aiuti alle imprese in difficoltà: sulla base della sentenza Corte UE del 7 aprile 2016, C-546/14, si è affermata infatti l’ammissibilità della procedura del concordato preventivo anche in caso di pagamento soltanto parziale del debito IVA da parte dell'imprenditore, purché un consulente attesti che l’erario non otterrebbe un introito superiore in caso di fallimento.
È anche questo, dunque, un buon esempio di diritto evolutivo e mite - che abbandona la rigida quanto perversa banalità causale dello stigma civile - e che tenta di selezionare, tra errori e passi in avanti, non l’ottimo ma il bene fragile … almeno tra le penultime cose.