Il nuovo Codice Antimafia: una fuga dal processo e dallo Stato di diritto
Diritto e libertà
Lo ha detto persino il Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone: sulle modifiche al decreto legislativo n. 159 del 2011 (il cosiddetto Codice antimafia) “ci sono criticità e più rischi che vantaggi”. Ed effettivamente, guardando al provvedimento approvato pochi giorni fa dalla Camera dei deputati, le perplessità non sono poche e, soprattutto, non sono di poco peso.
Ma andiamo con ordine. Che cosa prevede il neonato Codice, su cui tanto la politica si sta dividendo in queste ore? Una premessa è d’obbligo. La riforma interviene in una materia particolarmente delicata nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata e si inoltra in un terreno da sempre oggetto di acceso dibattito tra giuristi ed operatori del diritto: le misure di prevenzione. Si tratta di misure che hanno come caratteristica peculiare quella di essere applicate indipendentemente dalla commissione di un reato, sulla base di meri indizi di pericolosità sociale nei confronti di un soggetto.
Esse consentono, se personali, di limitare la libertà personale o di circolazione (obbligo di dimora, sorveglianza speciale, ad esempio); se patrimoniali, di privare un soggetto dei suoi beni, attraverso gli strumenti del sequestro e della confisca, quando il valore di questi risulti ingiustificatamente sproporzionato rispetto al reddito o all’attività svolta o, ancora, quando si abbia motivo di ritenere che i beni siano il frutto di attività illecite. Le recenti modifiche sono intervenute sotto vari profili, in parte da salutare con favore.
Da un lato, il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione viene reso più trasparente e veloce (mediante la trattazione prioritaria di tali casi e il rafforzamento delle sezioni competenti), vengono introdotte forme di sostegno per consentire la ripresa e la continuità produttiva delle aziende sequestrate e per garantite idonee misure a tutela dei lavoratori, viene riorganizzata l'Agenzia nazionale per i beni confiscati.
Anche sulla scelta degli amministratori giudiziari tenuti a gestire i beni confiscati c’è da rallegrarsi, posto che gli stessi dovranno essere selezionati tra gli iscritti all'apposito Albo, secondo regole di trasparenza che assicurino la rotazione degli incarichi. Viene, inoltre, specificato che non potranno più assumere tale ufficio, né quello di coadiutore o diretto collaboratore, “il coniuge, i parenti e gli affini, i conviventi o i commensali abituali del magistrato che conferisce l'incarico” (modifiche all’art. 35 del Codice, meglio nota come “norma Saguto”). Su questo ultimo punto, non sfuggirà come viviamo in un Paese decisamente bizzarro, in cui diviene necessario mettere nero su bianco che incarichi di una certa delicatezza non possano essere affidati a parenti, amici, convitati di chi li dispone. Ma tant’è.
Sotto altro aspetto, vengono ampliate le categorie di coloro che possono essere raggiunti da tali misure. Vengono infatti ricompresi tra i destinatari - oltre ai soggetti agli indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, nei confronti dei quali è nato il Codice antimafia stesso - anche chi è indiziato di associazione a delinquere per compiere delitti contro la pubblica amministrazione (tra cui peculato, corruzione, corruzione in atti giudiziari, concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità), di terrorismo, di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e di stalking.
Ecco l’aspetto davvero problematico della riforma. La novità introdotta non sono non convince da un punto di vista logico – d’altra parte, come si potrebbe intravedere una qualche somiglianza tra un soggetto indiziato per mafia e uno indiziato per stalking? -, ma appare fortemente criticabile sotto diversi profili.
Anzitutto, di questa riforma non si sentiva la necessità: il nostro codice penale mette già in campo una rete capillare di misure, in particolar modo patrimoniali, idonee a “bloccare”, anche prima di una condanna definitiva (ma pur sempre all’interno delle garanzie del processo penale) i beni che si ritengono di provenienza illecita. In relazione ai reati contro la pubblica amministrazione, ad esempio, è addirittura consentito confiscare le utilità patrimoniali di valore equivalente, quando risulti impossibile agire direttamente sui beni costituenti il profitto o il prodotto dell’illecito.
Ma il vero punto dolente è un altro: le misure di prevenzione si sono affermate nel nostro ordinamento su basi storiche e giuridiche non certo rassicuranti. Le legislazioni post-unitarie contemplavano gli strumenti di prevenzione come strumenti funzionali ad emarginare tutti quei soggetti ritenuti pericolosi per la collettività. Per citare solo alcuni esempi, venivano colpiti i vagabondi, gli oziosi, i soggetti dediti ad attività contrarie al buon costume o, ancora, i diffamati dalla “voce pubblica” e i dissidenti politici.
Con il Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1926, le misure preventive sono diventate definitivamente lo strumento cardine del controllo di polizia messo in campo dal regime fascista. L’entrata in vigore della Costituzione ha reso evidente il contrasto di tali misure con i principi dello Stato di diritto. Eppure, anche se si è cercato di coniugare le esigenze di prevenzione della criminalità organizzata con il rispetto dei diritti individuali e del giusto processo, il loro connotato genetico è rimasto invariato.
Infatti, come il figlio che eredita i tratti somatici dai genitori, così anche le attuali misure continuano ad assomigliare ai propri avi, recando con sé gli antichi caratteri della stigmatizzazione sociale, della cultura del sospetto, della sostituzione del regime delle prove con meri fatti idonei a sollevare dubbi.
Si dirà che in fondo, al fine di prevenire i reati - anziché attendere di punirli, una volta definitivamente accertati -, occorre anticipare l’intervento dello Stato ad una fase precedente al processo. Benché a fatica, potremmo sforzarci di essere d’accordo, ma a una sola condizione: che tali misure, in quanto fortemente incidenti su beni primari dell’individuo, si pongano come eccezionali e che vengano applicate solo in quegli ambiti di criminalità dove vi sia l’empirica, tangibile prova di una causale efficacia rispetto agli obiettivi che si intendono raggiungere.
È solo in questa prospettiva che può avere un qualche senso confiscare i beni di un soggetto che, sulla base di precisi indizi, si sia arricchito mediante attività illecite. Non si rinviene, invece, nel privare della propria azienda o della propria casa uno stalker, né equiparare tout court la criminalità mafiosa a quella dei colletti bianchi.
Eppure, come testimonia questa riforma, si assiste con sempre maggiore frequenza ad una indiscriminata ed illogica fuga dal processo. La giustizia penale preventiva sta diventando lo strumento ordinario e più comodo di repressione dei fenomeni criminali, e non più solo di tipo mafioso. Ma le limitazioni preventive delle libertà (personale, di iniziativa economica, di proprietà) sono ben lontane dai principi liberali. Occorre ricordarlo con forza, e non stancarsi di farlo.
D’altronde, l’allontanamento dalle garanzie proprie del processo penale e la punizione in assenza di un accertamento del fatto e della responsabilità, non solo si ripercuotono sulla vita dei singoli, costretti a prove liberatorie spesso diaboliche, ma diviene il terreno fertile per la creazione sempre più florida di fattispecie indiziarie di mero sospetto, aventi la funzione di “surrogato” rispetto ad una repressione penale inattivabile, o troppo difficile, per mancanza dei normali riscontri probatori.
Come è stato osservato da un noto giurista, le misure di prevenzione rappresentano ancora oggi “le stampelle di un apparato di repressione che non riesce a percorrere la via maestra del giudizio per l’accertamento del reato”. Questo è il vero pericolo che la riforma porta con sé, e non finisce qui. L’allargamento a dismisura dell’applicabilità di misure patrimoniali “ante delitto” è il portato del modo di intendere il diritto di proprietà da parte della nostra attuale classe politica.
Sono emblematiche le parole del Guardasigilli Orlando, quando pochi giorni fa ha affermato dal palco della convention della sua corrente a Rimini che «il vero punto che ha fatto saltare sulla sedia tanti critici non riguarda il garantismo, ma la proprietà privata» e che, a suo avviso, «la certezza della proprietà possa essere messa in discussione, quando la proprietà è di dubbia provenienza». Eccoci di nuovo alla cultura del sospetto. Ma eccoci, altresì, ai nemici ideologici della proprietà privata.
Il Ministro - e temiamo purtroppo che non sia il solo - dimentica che, al di là di quelle che possono essere le personali convinzioni, in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” e che “il diritto di proprietà costituisce una condizione per l’indipendenza personale e familiare” (Protocollo 1 Cedu).
Il diritto di proprietà è legato da un nesso inscindibile al diritto personale alla libertà. Ne rappresenta estrinsecazione e completamento. È allora essenziale che uno Stato, in difesa di questo assunto, limiti il più possibile il proprio potere sui diritti di proprietà del cittadino e ne definisca, con precisione e chiarezza, presupposti e regole.
Chi critica la legge di modifica al Codice antimafia «non è garantista, ma cultore della sacralità della proprietà privata», ha continuato ancora Orlando. Noi, invece, concludiamo osservando che chi critica la legge è proprio chi ha a cuore il garantismo, i principi dello Stato di diritto, e quindi, senza paura di affermarlo con forza, la sacralità della proprietà privata e dell’iniziativa economica del cittadino.