Il diritto del dolore. Perché sui 'casi Charlie' è bene che decidano i giudici
Diritto e libertà
Il caso etico, medico e mediatico del piccolo Charlie, il bimbo inglese gravemente malato e, purtroppo, poi morto, coinvolto in lungo conflitto legale tra i genitori e i sanitari in ordine al discrimine tra accanimento terapeutico e cure sperimentali, sollecita – a maggior ragione oggi, a riflettori spenti – valutazioni più generali e “politiche” che coinvolgono la natura dello stato di diritto ed i diritti ed i doveri, naturali e civili, che i genitori sono chiamati ad esercitare e ad onorare nei confronti dei figli.
È necessario, quindi, riconciliarsi sempre il più possibile con i fatti – ad esempio una patologia incurabile ed incompatibile con la vita autonoma - e cercare di comprendere le ragioni delle pronunce giurisdizionali – che hanno in vari paesi riconosciuto la necessità di porre un termine alle sofferenze tecnicamente sine die – come quelle emesse dai giudici inglesi e dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo nel caso del povero Charlie.
Dobbiamo interrogarci, cioè, sul senso di quella giustizia del caso concreto che domandiamo a figure terze e che concreta il Diritto. E non mi è sembrato giusto quanto affermato da alcuni importanti intellettuali liberali – penso agli accademici Corrado Ocone e Flavio Felice – secondo i quali lo scontro spirituale in atto riguarda un neo statalismo di matrice paternalista contro l'autodeterminazione della famiglia; il conflitto vero, a me pare, invece, quello tra la potenza della scienza, l'impotenza dei genitori e il dolore di una vita finita e "sospesa" e prossima a una morte, a cui è però emotivamente difficile arrendersi finché le macchine sono in grado di scongiurarla. Ma in questo conflitto, l'interessato è silente, oggetto e non soggetto delle pretese di chi in un modo o nell'altro pensa di difenderne l'interesse.
La tecnica ha ormai intaccato le certezze più acquisite ed ha invaso territori propri della speranza "altra", della fede, dell'abbandono delle logiche terrene. E ciò perché se la vita e la morte sono artificiosamente sospese e confuse sorge l'aspettativa legittima ad una durata indefinita, ad un'attesa di prossima soluzione alle porte; in fondo è la stessa logica di chi chiede l'ibernazione: la non morte, la non vita.
In tali casi, a fronte di derive spirituali così potenti, con il timore di una sofferenza inutile e volontariamente imposta, per tentare di tutelare al meglio la dignità di un innocente alla mercé di tutto e tutti: dell'amore, della tecnica, dei media, dei riflessi più bassi e più alti, chi può alla fine intervenire? Chi è legittimato in uno stato di diritto - sempre sul baratro dell'errore - ad esprimersi in terzietà, allorquando l’autodeterminazione è esclusa come nel caso di neonati, su accanimento terapeutico, cure sperimentali o accettazione della naturalità degli eventi? Su diritti dei genitori e dignità del figlio?
Proprio a questo, a me pare, servono i tribunali civili. Non, quindi, ad imporre la visione di uno Stato Etico che in tali casi di confine non può conoscere un’unica risposta a fronte della pluralità e legittimità degli approcci presenti all’interno della Società libera ma servono, appunto, per dirimere una controversia, per colmare in diritto - e non in verità – la frattura dell'eccezione concreta. In fondo, mi sono sembrati questi i principi applicati nella vicenda di Charlie – al netto della canea del circo mediatico - i principi laici e "deboli", nel senso liberale insegnatoci in Italia da Zagrebelsky, di un approccio tipico dei Paesi di Common Law.
Diverso, di contro, è stato il metodo utilizzato per Eluana Englaro dal Governo italiano guidato da Silvio Berlusconi, quando per superare, con un atto avente forza di legge, le pronunce giurisdizionali che tentavano di ricostruire, nella dialettica dei processi, la volontà a suo tempo espressa dalla sfortunata ragazza, si decise di imporre una specifica visione etica, si tentò la strada di un decreto legge – bloccato alla firma dal buon senso del Presidente Napolitano - per garantire – così si disse al tempo - “il panino ad Eluana”, per scongiurare l’interruzione – dopo anni di calvario inutile – dell’alimentazione e dell’idratazione coatta.
Quello che invece appare importante scongiurare in casi limite come questi e simili - e che l’evoluzione tecnica renderà sempre più numerosi - è l’affermazione di una visione proprietaria della vita altrui, l’arrogante generalizzazione della nostra specifica visione etica, delle nostre presunte scelte razionali.
È giusto demandare ai tribunali, ed ai loro periti, la decisione finale tra i diversi approcci (dei medici e dei genitori, nel caso di Charlie, o tra i due genitori in casi simili recenti) in conflitto? Su questo occorre ovviamente interrogarci in maniera laica e pragmatica, e magari coinvolgere discipline tutt’altro che superate come quelle filosofiche, teologiche, morali. Sono questi i temi che il diritto e la politica 2.0 hanno il dovere di affrontare per sostanziare nella contemporaneità i principi di libertà, di autodeterminazione, di democrazia ma, di certo, occorre sbarazzare il campo da visioni semplicistiche, da veri e propri atti di forza motivati da ideologismi escludenti che si rappresentano come veritieri, giusti, validi erga omnes, magari imposti per legge.
I figli non sono nostri, né dello Stato. La peculiarità e ricchezza del Singolo – anche e soprattutto dell’inerme che non può più esprimersi – trascendono i diritti e le aspettative della famiglia come dell’autorità costituita. E proprio per agevolare l’affermazione di un tale personalismo responsabile servono istituti come il consenso informato, il testamento biologico; anche per questo serve ripensare, in senso scriminante, fenomeni quali l’assistenza pietosa al suicidio dell’incurabile, proprio per evitare che l’autodeterminazione – nei casi estremi del dolore irrisolvibile e di una morte agognata come liberazione – possa essere travolta e messa da parte dall’imporsi generale di un’unica impostazione etica.