Onore ed onere della prova: la sentenza della Corte Europea sui vaccini
Diritto e libertà
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che in assenza di prove scientifiche certe che escludano il nesso di causalità tra l’assunzione di un vaccino e l’insorgenza di una malattia, questo nesso possa essere riconosciuto dal giudice di uno Stato membro in virtù di “indizi gravi, precisi e concordanti” presentati dal ricorrente.
Nel 1998 e 1999 un cittadino francese si è vaccinato contro l’Epatite B e solo un mese dopo ha cominciato a manifestare i sintomi della sclerosi multipla, che gli è stata diagnosticata nel 2000. Negli anni successivi le sue condizioni sono progressivamente peggiorate - già nel 2001 non poteva più lavorare - fino a una disabilità funzionale pressoché totale e alla morte, avvenuta a novembre del 2011. Già nel 2006 il signor W. (così il suo nome è siglato nella sentenza), assistito dai suoi familiari, aveva chiesto un risarcimento alla casa farmaceutica produttrice del vaccino, proponendo la concomitanza tra vaccinazione e insorgenza della malattia e l’assenza di precedenti personali e familiari come elementi probatori sufficienti a dimostrare il nesso di causalità. La richiesta è stata in un primo momento accolta, poi rigettata dopo il ricorso dell’azienda nel 2009, e i successivi pronunciamenti hanno continuato a respingere i ricorsi della famiglia del signor W.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata chiamata in causa dalla Cour de cassation francese in merito alla corretta lettura dell’art. 4 della Direttiva 85/374 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi. L’articolo in questione recita, con estrema chiarezza, che “il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno”. Messa così, la cosa sembra fin troppo semplice: sono i familiari del povero signor W. a dover fornire la prova che il vaccino contro l’epatite B abbia provocato la malattia del loro congiunto, e in assenza di tale prova, il loro ricorso non può che essere respinto.
Le cose però non sono così semplici, perché l’assenza della prova scientifica non può escludere la presenza di altri tipi di prova, coerentemente con quello che l’ordinamento giuridico di ogni Stato membro riconosce, appunto, come "prova". A questo proposito c’è un passaggio illuminante nelle conclusioni dell’avvocato generale della Corte (par. 19, 20 e 21):
“La direttiva impone alla parte danneggiata l’onere di provare il difetto, il danno, e la connessione causale tra questi due elementi. La conseguenza processuale di tale norma è evidente: se la parte danneggiata omette di adempiere tale onere, la sua domanda deve essere respinta.
Tuttavia, come è già stato dichiarato da questa Corte, la direttiva non aspira ad un’armonizzazione completa del settore della responsabilità per danno da prodotti difettosi al di fuori degli aspetti che essa disciplina. In particolare, la direttiva non armonizza norme in materia di prove per stabilire il modo in cui la parte danneggiata può adempiere l’onere della prova. Per quanto riguarda la causa in esame, la direttiva non prevede un elenco preciso di prove che la parte danneggiata deve presentare al giudice nazionale. La direttiva non specifica nemmeno l’ammissibilità delle prove presentate, o la forza probatoria da attribuire alle stesse, oppure le conclusioni che possono o devono esserne tratte.
Spetta quindi all’ordinamento giuridico nazionale di ciascuno Stato membro, conformemente al principio dell’autonomia processuale, stabilire norme dettagliate in materia di prove ai fini dell’applicazione pratica della direttiva”.
La Direttiva 85/374 non può che rimanere nel vago, dal momento che riguarda la responsabilità per il danno di prodotti difettosi in molti settori, nella maggior parte dei quali la prova scientifica non si può considerare determinante come in questo caso. Quindi non definisce ciò che è “prova” e ciò che non lo è, e anche la Corte non può che limitarsi a ricordare che l’onere della prova non può essere ribaltato attraverso un uso, diciamo così, “disinvolto” degli indizi e delle presunzioni.
Se il legislatore europeo avesse voluto inserire nella Direttiva l’indispensabilità della prova scientifica, almeno in alcune circostanze, avrebbe potuto farlo. In assenza di indicazioni del genere - e non è detto che non si possa rimediare al più presto - alla Corte non rimane che riconoscere al diritto e alla legislazione nazionale degli Stati membri l’ultima parola sulla definizione delle prove ammissibili e la loro forza probatoria per la risoluzione di questo tipo di controversie.
E’ quindi qui, nei vari ordinamenti nazionali, che la questione si complica e, se vogliamo parlare dell’Italia, si aggrava pesantemente. La scienza e la giustizia “ricercano” la verità in maniera diversa, ma non sono compartimenti stagni. Comunicano attraverso i periti, che vengono chiamati dalle parti o dal giudice stesso e il nodo, che rende particolarmente vulnerabile il sistema italiano - come abbiamo potuto riscontrare negli ultimi anni proprio in tema di vaccini - sta nella qualità dei periti e nei criteri attraverso i quali agli elementi da loro presentati viene attribuito il crisma di “scientificità”. Un problema grave, che aveva approfondito Daniela Ovadia su queste pagine in un bell’articolo del maggio del 2015, che consigliamo di rileggere.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul caso del signor W. non chiama alla rassegnazione sull’ineluttabilità e l’insindacabilità di sentenze gravi come quelle che in Italia avevano riconosciuto un nesso causale inesistente tra vaccini e autismo, ma chiama piuttosto all’azione per la revisione, ad esempio, dei criteri per essere ammessi agli albi dei periti presso i tribunali, dato che oggi per farne parte è sufficiente una laurea in una materia affine a quella della quale ci si vuole occupare, o per l’adozione di criteri più rigidi e corretti per classificare una prova scientifica: su tutti il Frye Standard e il Daubert Standard, applicati negli Stati Uniti, in base ai quali le prove portate da Vannoni nel caso Stamina non sarebbero mai state giudicate ammissibili.