Scattone Ferraro

Per parlare della nuova inchiesta, autopubblicata, di Vittorio Pezzuto sul caso Marta Russo (Marta Russo. Di sicuro c’è solo che è morta, disponibile solo su Amazon) ha senso, forse, partire dalla fine.

Dall’Epilogo del libro, che comincia a pagina 634 e che si apre con la citazione di uno strillo sparato sulla prima pagina del Fatto Quotidiano il 9 settembre 2015: “Giovanni Scattone condannato a 5 anni e 4 mesi per aver ucciso a fucilate Marta Russo insegnerà psicologia in un istituto professionale. Senza parole”. Per questo titolo sguaiato, e per via della campagna di stampa e di opinione che ne seguì, Scattone sarà poi costretto a rinunciare una volta per tutte a un posto da insegnante di ruolo, sudato in anni di supplenze trascorsi tra enormi difficoltà economiche, e dopo essersi classificato ai primissimi posti in un concorso pubblico.

Quando Marta Russo, studentessa ventiduenne di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, fu ferita mortalmente il 9 maggio del 1997, il Fatto Quotidiano non era ancora nato. Né esisteva durante i lunghi anni della complessa vicenda giudiziaria, conclusasi nel 2003 con la condanna definitiva per omicidio colposo per Giovanni Scattone e per favoreggiamento per Salvatore Ferraro.

Eppure quel titolo, a distanza di 18 anni dal delitto, è un riassunto emblematico di una storia italiana nella quale, come scrisse con involontaria ironia Dacia Maraini, “il garantismo è fuori luogo”. Come il libro di Pezzuto mette in luce, il caso della Sapienza contribuì a gonfiare oltre misura un paradigma mediatico “manettaro” nel racconto della cronaca giudiziaria, e non solo. Una stagione giornalistica, i cui frutti sono stati poi magistralmente raccolti e distillati nella retorica del quotidiano di Travaglio, caratterizzata da un intreccio fatale tra penne e procure, dal supino appiattimento e dal rilancio delle costruzioni della pubblica accusa, dalla logica del mostro creato ad arte e sbattuto in prima pagina.

L’inchiesta di Pezzuto ha due facce che si fondono perfettamente. Da un lato c’è il racconto minuzioso e meticoloso delle carte. I corposi faldoni giudiziari riescono così a trasformarsi, grazie a una prosa piacevole, in un avvincente legal thriller, che si legge come un’opera di finzione ma che attinge in tutto e per tutto (con l’ausilio di un ricco apparato di note) alla realtà dei fatti. Dall’altro lato, questa controinchiesta è davvero magistrale nel modo in cui riesce ad intrecciare al mosaico del racconto e al linguaggio paludato delle carte ufficiali la polifonia delle voci di stampa che non solo circondarono questa triste vicenda, ma spesso contribuirono a costruirne dal nulla pezzi fondamentali. In questo, il libro di Pezzuto somiglia davvero ad un romanzo corale, in cui il dibattito pubblico coevo, spesso aspro, urlato e partigiano, viene fuori, sovente nella sua meschinità, come un lungo dialogo ininterrotto durato più di un lustro.

Il caso della Sapienza divise l’opinione pubblica fin dai primissimi momenti. Città nella città, da più grande ateneo d’Europa la Sapienza assume improvvisamente, nel racconto di stampa e televisioni, i contorni di luogo di congiure inconfessabili, traffici scandalosi e omertà mafiosa. Fin da subito il caso si presenta complesso: nessuno che abbia visto da dove provenisse lo sparo, l’arma che non sarà mai ritrovata. Le ipotesi iniziali parlano di pista terroristica (il 9 maggio, si notò immediatamente, è anche il giorno in cui fu ucciso Aldo Moro) o di vendetta mafiosa, in entrambi i casi ipotizzando un tragico scambio di persona. Si scopre con sorpresa che gli appassionati di armi e di tiro non scarseggiano, persino in quel fazzoletto di cittadella universitaria. Silenziatori artigianali vengono ritrovati negli armadietti degli addetti di una ditta di pulizie, dalle intercettazioni emerge un primo indagato ufficiale, un bibliotecario appassionato di armi, che verrà scagionato perché in possesso di un alibi solido.

La pressione sugli inquirenti è altissima, sia per la grande eco mediatica del caso (ai funerali di Marta Russo parteciperanno le maggiori personalità politiche e Giovanni Paolo II invierà un messaggio), sia perché la Procura di Roma è reduce da una serie di clamorosi insuccessi (tra tutti, i casi irrisolti dell’Olgiata e di via Poma).

Tutto cambia quando, dai rilievi effettuati dalla polizia scientifica sulle finestre che affacciano sul vialetto dove si trovava a passare la vittima al momento dello sparo, emerge una particella binaria di bario e antimonio sul davanzale dell’aula assistenti (la famosa Aula 6) dell’Istituto di Filosofia del diritto. Per gli investigatori, si tratta di una traccia esclusiva di polvere da sparo, e della prova che la finestra è proprio quella da cui sarebbe partito il colpo.

Una conclusione che verrà smentita clamorosamente, per ben due volte, dalle perizie tecnico-scientifiche non di parte disposte dalla corte d’Assise di primo grado e dalla corte d’Assise d’appello (e confermate dal parere tecnico di Scotland Yard). In entrambi i casi, i tecnici confermeranno come la particella - del tutto simile a tracce di inquinamento presenti su numerose altre finestre, trovata per altro in un ambiente aperto al pubblico, altamente inquinato e dopo venti giorni dal delitto - non fosse da ritenersi traccia dello sparo, ma fosse in realtà facilmente riconducibile a un residuo di frenatura d’auto. Ma intanto la macchina dell’accusa è stata innescata, e da questo momento in avanti - abbandonata ogni pista alternativa e pur perdendo per strada molti pezzi - riuscirà nell’intento di soffocare nei suoi ingranaggi una serie infinita di più che ragionevoli dubbi.

Da condannato per omicidio colposo in via definitiva, guardando retrospettivamente all’intera vicenda, Scattone userà l’appropriata metafora della valanga di neve innescata da un singolo cristallo. In effetti, il libro di Pezzuto mostra come il teorema accusatorio abbia mosso i primi passi dal ritrovamento della particella binaria sul davanzale dell’Aula 6, in una sequenza di testimonianze a catena, stranamente tardive e non esattamente spontanee, che condurrà all’identificazione dei presunti colpevoli (i due assistenti di filosofia del diritto Scattone e Ferraro)

Due, in particolare, le testimonianze sulle quali si incardinerà l’intero processo: quelle di Maria Chiara Lipari e di Gabriella Alletto. Il secondo, cruciale tassello della valanga indiziaria è dunque la testimonianza della dottoranda Lipari, figlia di Nicolò, professore ordinario nella Facoltà di Giurisprudenza e parlamentare della Repubblica. Setacciando i tabulati Telecom, gli inquirenti si accorgono che due telefonate sono infatti partite dall’Aula 6 nei minuti immediatamente successivi allo sparo e dirette ai familiari della Lipari. Interrogata, la dottoranda in un primo momento dichiara agli inquirenti di aver trovato la sala assistenti vuota. Nondimeno, viene persuasa di essersi trovata sulla scena del crimine a pochi secondi dal delitto. Una psicologia fragile farà il resto.

Le pagine che contengono le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche alla Lipari - a cavallo dei numerosi interrogatori nei quali, a spezzoni, affioreranno i suoi ricordi - sono tra le più sconvolgenti del libro. Sotto gli occhi del lettore incredulo, si assiste al contorto processo mentale che porterà la giovane ricercatrice a sentirsi prima investita della responsabilità morale dell’intera vicenda (arrivando, in una conversazione privata, ad avvicinarsi a Marta Russo in qualità di seconda vittima). Dunque a percepire con crescente senso di ingiustizia la tranquilla indifferenza di colleghi e superiori - per altro pacificamente convinti dell’estraneità dell’Istituto all’intera vicenda - che ai suoi occhi apparirà come un soffocante muro di omertà. Lipari comincia allora a ricostruire sensazioni, percezioni subliminali, che gradualmente diventano ‘lampi’ e infine memorie fotografiche e uditive la cui credibilità come prove, per la loro genesi travagliata e intenzionale, lascerà incredulo un neurofisiologo come Piergiorgio Strata, e che verranno in parte clamorosamente smentite da un più attento esame degli orari delle telefonate. La testimone riferisce in particolare di un senso di gelo, di tensione trattenuta. Infine fa dei nomi: l’usciere Liparota, la segretaria Gabriella Alletto e l’assistente Mancini (il quale, in possesso di un alibi, opportunamente si trasformerà in Ferraro). La valanga può così cominciare la sua rapida, distruttiva discesa a valle.

La principale accusatrice dei due assistenti sarà proprio la segretaria Alletto. Vaso di coccio tra vasi di ferro, nel ruolo di indagata per favoreggiamento, per una decina di interrogatori fiume nell’arco di una manciata di ore (spesso nottetempo), Alletto nega insistentemente di essere mai entrata in quella stanza. Infine crolla, puntando il dito su Scattone e Ferraro e descrivendo per sommi capi la scena del delitto. Da quel momento terrà sempre ferma la sua ultima versione, ribadendola anche nel corso di tesi confronti all’americana in aula con i due principali imputati. Durante il processo di primo grado, la Procura su richiesta delle difese consegnerà il ‘video shock’ di uno degli ultimi interrogatori prima della definitiva svolta. Vi si vede la Alletto, irritualmente assistita del cognato poliziotto, che piange e si dispera, giura sulla testa dei figli di non essere mai entrata in quella stanza. Il pm Ormanni le prospetta allora un’accusa ben più grave (“la prenderemo per omicida”). Ai ferri corti, la Alletto si rivolge al cognato in cerca d’aiuto: “io non potrei fa' questo: ma io devo essere persona leale o una persona sleale, Gino?” Il cognato-poliziotto non ha dubbi: “Ahò, quando ci so' sti reati qua, devi essere sleale, chi è che ha fatto il male lu paga, non me ne frega niente a me.” In uno scambio successivo tra i due, la Alletto lamenta: “Bisognerebbe sapere chi è quell'altro oltre a Ferraro…”.

Detto fatto, il nome di Scattone salterà fuori qualche giorno dopo. In una controversa puntata di Porta a Porta (disponibile su Youtube), l’assistente di filosofia sosterrà che al suo nome si è arrivati per un semplice processo di esclusione (era l’unico altro assistente dell’Istituto presente a Roma quel 9 maggio), in base all’assunto che a sparare fosse stato proprio un assistente (Ferraro, essendo mancino, non poteva aver sparato). Della condotta dei pm nel video dello scandalo parlerà anche l’allora premier Prodi definendola gravissima. Il video, rilasciato nel bel mezzo del processo di primo grado, sembra segnare un punto definitivo a favore delle difese, ma non verrà acquisito agli atti del processo. Nel libro, Pezzuto riesce a trasmettere la portata di questo cruciale passaggio, che vide per la prima volta vacillare il fronte d’opinione dei colpevolisti, fino ad allora compatto nell’individuare nei due dottorandi dei novelli Raskolnikov imbevuti di superomismo.

Già. Il delitto perfetto, il superomismo nicciano, i libri dai titoli inquietanti (in realtà capolavori della letteratura e della filosofia). E ancora, il muro di omertà, le filastrocche di Ferraro e i diari adolescenziali di Scattone, l’assenza di movente come movente scandaloso (e tale da rendere necessaria, agli occhi dei giudici del tribunale del riesame, la lunghissima custodia cautelare per i due imputati per quasi tutta la durata delle indagini e del processo). Uno ad uno il dibattimento vedrà crollare i tasselli di un’ipotesi accusatoria (omicidio volontario) fagocitata e riprodotta dalla stampa come articolo di fede, ma cucita come un lenzuolo troppo corto per coprire i numerosi buchi del teorema della Procura di Roma.

L’assenza dell’arma e del movente, le perizie chimiche e balistiche, gli alibi (pur fragili) di Ferraro e Scattone, la credibilità dei testi, le repentine ritrattazioni di Liparota, i conti in tasca della Alletto e le memorie “troppo volontarie” della Lipari. Sono solo alcuni dei passaggi oscuri dell’assurdo ciclone che investì i due giovani ricercatori di filosofia del diritto. Ai quali parve di aver trovato un giudice a Berlino quando, finalmente, il rappresentante della pubblica accusa in cassazione, Vincenzo Geraci, a sorpresa fece a pezzi il castello di carte accusatorio, chiedendo e ottenendo la ricelebrazione del processo d’appello. Tutto inutile. La dignitosa famiglia di Marta Russo - alla quale in ultima analisi è stata negata la possibilità di conoscere la verità sulla morte della figlia - credeva fermamente nella colpevolezza dei due dottorandi e non mancava di consegnare la sua comprensibile convinzione alla stampa e alla tv. L’opinione pubblica richiedeva a gran voce un colpevole. La slavina dell’accusa si era ormai trasformata in una valanga pericolosa, disposta ad avallare, in mancanza d’altro movente, la tesi da Santa Inquisizione per la quale ad armare la mano di Scattone fosse stato nientemeno che il diavolo in persona. Optando per il compromesso (omicidio colposo), ai giudici, popolari e togati, mancò forse il coraggio per reagire a tali e tante forzature, e ristabilire così un brandello di verità e di stato di diritto.

Il coraggio, invece, non è certo mancato a Vittorio Pezzuto. Il giornalista, già autore di una fortunata biografia di Enzo Tortora, ha sfidato con questo libro autopubblicato l’ignavia degli editori. Non solo. Pezzuto ha dipinto uno spaccato impietoso dello stato dell’informazione italiana. Proprio come nel recente documentario Netflix su Amanda Knox, ci si domanda in questa storia chi sia il vero villain, se i pubblici ministeri troppo affezionati alle loro tesi e disposti a passare sopra le vite altrui pur di puntellarne la precaria tenuta, oppure i reporter arrivisti e gli opinionisti sciacalli, i cui nomi sono gli stessi che ancora oggi condiscono i sottopancia dei talk televisivi.

In poco meno di 700 densissime pagine Vittorio Pezzuto ha usato lo strumento implacabile della catena dei fatti e della logica per smontare e rimontare i pezzi del puzzle della Sapienza. Un atto dovuto nei confronti di due condannati probabilmente vittime di un tragico errore giudiziario, i quali non hanno mai smesso di gridare, sovrastati dagli strilli giacobini della stampa, la propria innocenza.