Eutanasia: le ragioni di una legge 'minima' sul fine vita
Diritto e libertà
Il rinnovato dibattito sul suicidio assistito e l’eutanasia, emerso dopo la rappresentazione politica e mediatica del dolore e della fine di d.j. Fabo, ha prodotto – ed in tal senso va riconosciuto ed ammirato il coraggio di un uomo e della sua battaglia “per altri” - diversi orientamenti e conclusioni, anche in ambito liberale.
Taluni, come i radicali italiani di Marco Cappato, facendo perno sulla libertà e responsabilità individuale e sul fenomeno dell’agevolazione pietosa della autodeterminazione del sofferente totalmente incapace, sono riusciti - di nuovo - a proiettare decisamente la propria azione politica per una legge, giudicata come “necessaria”, che autorizzi la procedura in strutture medicalmente conformi anche in Italia, senza la pena aggiuntiva della emigrazione coatta.
Altri, come il filosofo neo idealista Corrado Ocone, hanno parlato, invece, di "rischio statizzazione" insito nella emersione legale di una tragedia che, necessariamente, per salvaguardare davvero al libertà del singolo, dovrebbe rimanere in un ambito intimo inaccessibile ad un intervento pubblico che rappresenterebbe il definitivo trionfo di quella ideologia dei diritti che mira ad ottenere sempre più garanzie da un Leviatano interpretato come una balia iper protettiva.
Come spesso accade, anche in questo delicato contesto esiste sempre la possibilità di una prospettiva terza capace di accogliere e portare a sintesi i diversi approcci, in modo da contribuire a chiarire attraverso l’analisi – non solo evidentemente in ambito liberale – la posta in gioco per tutti.
A mio parere non sussiste il rischio di statizzare un fenomeno privato, né di “costringere” legalmente una vicenda sempre aperta e molteplice come il fine vita del malato terminale se, appunto, dall’ambito prettamente normativo della produzione giuridica del novum, dall’obiettivo di colmare un vuoto interpretato come problematico (magari attraverso l’intervento pomposamente definitorio e confusamente elefantiaco di un “articolato” che mira a disciplinare tutto) si riuscisse a praticare il metodo – autenticamente liberale perché funzionante “per sottrazione” – di una giuridificazione pragmatica, rispettosa e minimalista che si desse il compito, innanzitutto, di ordinare e discriminare un grumo di fenomeni, di scelte individuali, di eventi tragici che, ormai, posseggono l’avvertita capacità politica di incidere profondamente sulla Società, di innescare criticità tanto destabilizzanti quanto progressive che coinvolgono la natura stessa dello stato di diritto contemporaneo e le nuove categorie del “politico”.
Si tratterebbe quindi (dopo venti anni di dibattito pubblico intermittente a causa della pavidità dei nostri rappresentanti) - nel tempo dell’impressionante accelerazione tecnico-scientifica capace di mantenere sine die la "non-vita" dello stato vegetativo, dell’allungamento continuo della terza età e del correlato incremento delle patologie croniche invalidanti - di intervenire urgentemente - in senso scriminante - a tutela dell’individuo, in un settore che, al di là della vulgata dominante, è tutt’altro che caratterizzato da un vuoto normativo essendo oggetto dell’attenzione autoritaria del nostro Codice Penale.
L’art. 579 c.p., infatti, disciplina la fattispecie dell’omicidio del consenziente prevedendo una pena da 6 a 15 anni, mentre l’agevolazione al suicidio, art. 580 c.p., è punito da 5 a 12 anni, senza che neanche possa trovare applicazione, nel caso concreto, l’attenuante dei “particolari motivi morali e sociali” che la giurisprudenza ha escluso in base alla considerazione dell’esistenza, in tema di eutanasia, di un vivace dibattito sociale ma non di un generale consenso, di certo difficilmente raggiungibile in materia e, probabilmente, non auspicabile dai cultori della libertà. Tale impostazione penalistica trova conferma, inoltre, nel codice di deontologia medica, nel quale viene statuito il divieto anche solo di favorire con comportamenti indiretti la morte del paziente terminale, senza alcuna discriminazione in ordine al rispetto della autodeterminazione dell’assistito.
Questa rigida impostazione proibizionista è sconnessa, evidentemente, con il quanto meno complesso ed articolato sentire - storicamente determinato, e, quindi, autenticamente “naturale” - dell'assoluta maggioranza dei cittadini italiani; un’impostazione vetusta che, aldilà dei diversi approcci e distinguo di sensibilità, appare superata, problematica, bisognosa di riflessione laica e di una rivisitazione giuridica non ideologica che parta dalla necessità di sottrarre la tragicità, peculiarità e singolarità del fenomeno dalle strette maglie della risposta penalistica.
Una risposta che produce solo l’orrida ed inaccettabile discriminazione di classe tra chi semplicemente “non deve e non può” e chi l’eutanasia la pratica di nascosto grazie alla possibilità, innanzitutto economica, di affrontare il rischio e le conseguenze di una pratica legalmente vietata.