Canale monumento

La materia elettorale è quella più naturalmente catturata dagli interessi degli incumbent, cioè dalle forze politiche rappresentate in Parlamento. Deputati e senatori votano sempre, in questo caso, in palese conflitto di interessi e raramente, se non costretti (come avvenne dopo i referendum dei primi anni '90), con un'attenzione autentica, anche se potenzialmente fallace, agli effetti generali delle proprie decisioni e alle aspettative dell'opinione pubblica.

A questo problema non si può rimediare, ovviamente, "sdemocratizzando" la legislazione elettorale e affidandola a un qualche potere terzo, in grado di meglio interpretare i diritti e i desideri del popolo, ma neppure estendendo, allargando o inventando una serie di vincoli costituzionali al potere delle camere e di fatto assegnando alla Consulta, come è già recentemente accaduto, e presto tornerà ad accadere, un potere di veto (altri direbbe: di garanzia) assolutamente più abnorme dal punto di vista democratico della tentazione dei partiti politici di farsi una legge su misura, ma anche di risponderne di fronte ai cittadini.

Delle tante anomalie di cui è costellata la storia elettorale dell'ultimo quarto di secolo - a partire dal cervellotico avanti indrè tra modelli diversi, ma tutti in qualche modo eccezionali e privi di precedenti e paragoni nell'esperienza delle altri grandi democrazie occidentali - l'anomalia più recente, quella rappresentata dall'interventismo della Corte Costituzionale (più da "terza camera", che da "secondo Quirinale", se vogliamo rendere figurativamente il concetto) è la più macroscopica, malgrado sia a tal punto entrata nel senso comune da finire perfino costituzionalizzata ex post nella riforma Boschi, che prevede la possibilità di un vaglio preventivo delle leggi elettorali da parte della Consulta, su ricorso motivato di almeno un quarto dei deputati o di un terzo dei senatori.

Dopo la sentenza 1 del 2014 abbiamo tutti "scoperto" nella Costituzione un insieme di regole apparentemente occulte (sui limiti alla disproporzionalizzazione del voto e sulla non disgiungibilità di voto di preferenza e voto di lista, ad esempio), ma visibili all'occhio esperto dei giudici costituzionali, di cui dal Mattarellum in poi (per non parlare delle leggi elettorali di comuni, province e regioni) le camere avrebbero ripetutamente violato spirito e lettera e che la Consulta ad un certo punto ha ripristinato, ma in modo neppure così chiaro se ex giudici costituzionali e presidenti emeriti della Corte continuano a leggere la sentenza "rivoluzionaria" che fece fuori il Porcellum in modo decisamente diverso. E tanto più diverso, ovviamente, quando più divergente è il loro orientamento politico.

Per chi pensava che la Corte costituzionale, in questa materia, dovesse vigilare sull'arbitraria compressione del diritto di elettorato attivo e passivo, ma non sugli obiettivi politico-istituzionali delle legislazioni elettorali, è stata una sgradita sorpresa. Che la Carta contenga la "formula" per contemperare, in termini costituzionalmente corretti, il principio di rappresentanza e quello di governabilità, ad esempio, non lo si scopre leggendo la Costituzione (e neppure rileggendola), ma lo si intuisce dalla recente giurisprudenza della Corte, che si è però ben guardata dallo svelarne il segreto, continuando ad alludere ad essa in modo vagamente oracolare.

Prescindendo dal giudizio politico sull'Italicum, la cosa più stupefacente è che nel countdown che ci separa dal giudizio della Corte ormai nessuno, né tra i favorevoli, né tra i contrari, si stupisca che il giudice della leggi debba essere chiamato a pronunciarsi sull'inammissibilità del premio di partito, anziché di coalizione o delle candidature bloccate dei capilista nei collegi plurinominali o dell'assenza di un rapporto minimo tra i voti raccolti dal partito vincente al primo turno e i seggi a questo assegnati in ragione del premio di maggioranza, dopo il ballottaggio.

Seguendo il filo delle doglianze, che la Corte a quanto pare sembrerebbe intenzionata almeno parzialmente a raccogliere, si può giungere alla conclusione che la Costituzione italiana osta, per una ragione o per altra, all'adozione di qualunque sistema elettorale oggi in uso nelle maggiori democrazie parlamentari europee e che l'unico sistema pacificamente conforme alla Costituzione più bella del mondo sia quello proporzionale puro con preferenze, che riporterebbe politicamente ai non gloriosi fasti dell'Italia primo-repubblicana.

Visto però che le leggi elettorali non servono a scattare la fotografia più precisa e fedele degli umori dell'opinione pubblica, ma a garantire l'efficienza del sistema democratico - impegno che comporta l'esercizio di una responsabilità politica - una giurisprudenza costituzionale particolarmente interventistica, più che un fattore di garanzia istituzionale, diventa una sorta di contropotere giudiziario. In nome, per di più, di un "principio di ragionevolezza" che sborda pericolosamente dai confini del giuridico, per sfondare quelli del politico.

Per troppo tempo in Italia ci siano illusi della forza taumaturgica di legislazioni elettorali ortopediche, in grado di correggere i difetti e orientare l'evoluzione del sistema politico e di migliorare insieme la qualità dei partiti, delle camere e degli esecutivi. Ora, a quanto pare, sembra doveroso ostentare fiducia e rendere omaggio a questa forma paradossale di "governo dei giudici". Non ci sembra sinceramente un passo avanti, ma un ennesimo passo indietro.

@carmelopalma