Chi si attendeva una legge di stabilità innovativa, con misure proiettate alla crescita economica del Paese (leggi defiscalizzazione e tagli di spesa pubblica), è stato subito servito con una bella, appassionata e defatigante discussione pubblica sul merito e il metodo dell’ennesima tassa, la cosiddetta “Google Tax”.

La misura è contenuta in un emendamento alla legge di stabilità presentato dal presidente della Commissione Bilancio della Camera, il piddino Francesco Boccia, e prevede che «i soggetti passivi che intendano acquistare online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media e operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita Iva italiana» (nda, grassetti miei).  Gli obiettivi della disciplina sono stati sviscerati diffusamente, e non li ripeterò. Ne trovate una sintesi qui.

A una prima lettura, la lettera dell’emendamento si segnala in tutta la sua approssimazione, allorchè pare equiparare gli acquirenti di servizi e beni tramite commercio elettronico a «soggetti passivi di imposta». Equazione sbagliata, perchè sia ai fini IVA che ai fini di una eventuale tassazione dei profitti, i consumatori non sono soggetti passivi, tutt’al più “soggetti incisi” nel caso dell’IVA.

Ma sorvoliamo sul wording incerto, e concentriamoci sulla questione più spinosa sollevata da questa disciplina, e cioè che essa ha un enorme potenziale distorsivo del mercato interno europeo, e rischia di confliggere, in ordine di apparizione nei Trattati UE,  con la libertà di circolazione dei beni (Articoli 28, 30, 34, 36 e 110 del TFUE), la libertà di stabilimento (Articoli 49, 52 e 54 TFUE), la libera prestazione dei servizi (Articoli 56 e 61 TFUE e Direttiva Servizi) nonchè la normativa derivata IVA, che è l’unica imposta completamente armonizzata a livello europeo, sulla quale gli Stati Membri non hanno margini autonomi di manovra, se non nella misura in cui ciò è consentito dalla normativa comunitaria citata.

I profili problematici sono dunque molti e complessi e gravitano intorno all’obbligo per i fornitori di beni e servizi in commercio elettronico di aprire una partita IVA italiana al fine di accedere al mercato del nostro Paese. Seguendo l’ordine accennato nel paragrafo precedente, esaminerò prima il potenziale conflitto dell’emendamento con la disciplina della libera circolazione dei beni, poi con quella della libertà di stabilimento, di prestazione dei servizi e infine dell’IVA.

Nel mercato interno europeo i Trattati garantiscono la libera circolazione delle merci attraverso il divieto imposto agli Stati Membri di istituire dazi doganali, misure equivalenti ai dazi doganali, restrizioni quantitative e misure equivalenti, tassazione discriminatoria o con finalità protezionistica.

Sul tema è copiosa la giurisprudenza interpretativa della Corte di Giustizia Europea. Ai nostri fini rileva il divieto di tassazione discriminatoria di beni importati sancito dall’articolo 110, primo comma, del TFUE. Esso stabilisce che quando uno Stato Membro importa dei beni da altro Stato Membro, tale bene deve essere assoggettato allo stesso trattamento fiscale dei beni similari prodotti all’interno dello Stato di importazione. Nella sentenza Stadtgemeinde Frohnleiten (C-221/06), la Corte ha ribadito che il divieto si estende «a tutti i regimi  fiscali (tax procedures nella versione inglese della sentenza, nda) direttamente o indirettamente incompatibili con la parità di trattamento fra le merci di produzione nazionale e quelle importate». Ciò vuol dire che anche le procedure fiscali, e non solo gli elementi costitutivi del tributo applicato su una merce importata, devono essere neutrali. L’obbligo di aprire partita IVA italiana per vendere, a mezzo di commercio elettronico, beni prodotti in un altro Stato Membro, costituisce invece una procedura fiscale che rischia di discriminare indirettamente i produttori/venditori di beni esteri a vantaggio di quelli italiani.

Giova ripetere, ad abundantiam, che quello sommariamente descritto non rappresenta il principale punto di frizione dell’emendamento “Google Tax” con la normativa UE.

Il conflitto potenziale è invece più probabile con le norme che disciplinano la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi. A giudicare dall’intento dei promotori, la “Google Tax” dovrebbe servire a riacciuffare base imponibile che alcune importanti compagnie multinazionali nascondono o legittimamente allocano in giurisdizioni fiscali più favorevoli. Nel mirino vi sono soprattutto le fattispecie di acquisto di pubblicità e campagne pubblicitarie online, ma siccome la legge è per definizione astratta e generale, una volta approvata essa dovrebbe intendersi applicabile a qualsiasi servizio prestato in modalità e-commerce all’interno dell’UE, sia su base stabile (come ad esempio nel caso di Google, stabilita in Irlanda) sia su base occasionale (si pensi a un traduttore libero professionista che attraverso il web offrisse i suoi servizi, su base occasionale, dalla Francia a clienti italiani).

Imponendo l’obbligo di aprire una partita Iva italiana per vendere servizi in Italia, lo Stato Italiano introdurrebbe una restrizione tanto alla libertà di stabilimento (secondario) di Google (che uso per comodità esemplificativa) che alla libertà di prestare servizi del singolo traduttore francese (ma anche la libertà di acquistare servizi su base transfrontaliera del suo acquirente). In questi casi, gli Stati Membri sono soliti invocare a supporto della propria azione motivi di pubblico interesse (vedi articolo 52 TFUE) oppure l’obiettivo di mantenere la “coerenza del proprio sistema fiscale”. Ma tenendo fede al proprio approccio liberalizzatore, la Corte di Giustizia interpreta le deroghe alle libertà fondamentali molto restrittivamente, e l’Italia avrebbe vita ardua, se non impossibile, davanti alla Commissione prima, e ai giudici del Lussemburgo poi, come ben sa il presidente francese Hollande, il quale non a caso ha proposto che la “Google Tax” sia coordinata da Bruxelles.

Dulcis in fundo, l’IVA è l’unica imposta interamente armonizzata a livello europeo, e pertanto l’Italia non può incidere la materia a proprio piacimento. Gli oneri regolamentari e tributari vanno distribuiti nel rispetto della direttiva IVA (2006/112/CE), che assicura la neutralità fiscale negli scambi intracomunitari di beni e servizi, impedendo il verificarsi di fenomeni di doppia imposizione.

Ad oggi, nei rapporti businesso to consumer, la fornitura di pubblicità e servizi elettronici è soggetta all’IVA dello stato in cui è stabilito il fornitore (articolo 44 della Direttiva IVA). Tuttavia, proprio per redistribuire parte del gettito Iva da commercio elettronico in maniera proporzionale al reale volume d’affari dei fornitori nei diversi Stati Membri, la direttiva è stata modificata e a partire dal primo gennaio 2015 l’imposta sulle forniture elettroniche si pagherà sempre allo Stato Membro dove il cliente risiede (point of consumption), e ciò perfino nel caso in cui il fornitore del servizio non sia stabilito affatto in UE, bensì in un paese terzo. Esattamente come vogliono i promotori della “Google Tax”. In ogni caso, l’Italia non può imporre a una società, sia essa stabilita in Europa oppure no, di aprire una partita iva italiana. Nel primo caso lo vietano le norme sulla libertà di stabilimento, nel secondo caso l’articolo 360 della direttiva IVA, secondo il quale le aziende non stabilite in Europa possono scegliere in quale paese europeo registrarsi per far fronte agli adempimenti previsti dalla direttiva medesima (principio del one-stop-shop).

La via italiana alla Google Tax semplicemente non esiste, e rischia di aprire una procedura d’infrazione europea a carico del Paese. Sarebbe bene tornare a discutere di cose più utili per il rilancio del Paese, come i tagli di spesa e l’abbattimento massiccio del cuneo fiscale.