È conflittuale il rapporto tra i giudici italiani e la scienza, o almeno così viene percepito da chi ha una formazione scientifica. Sentenze che attribuiscono ai vaccini responsabilità ampiamente smentite dalla ricerca (come quella di provocare l'autismo), riduzioni di pena basate su test genetici di propensione ai comportamenti violenti che in altri paesi sono già stati ritenuti solo parzialmente attendibili, senza dimenticare la complessa vicenda Stamina, in cui il parere degli scienziati più accreditati nella materia spesso non è stato preso in considerazione dai tribunali coinvolti nelle varie decisioni: ce n'è abbastanza per chiedersi in che modo una prova scientifica approda nelle nostre aule di giustizia e quanto sia vincolante per la decisione del giudice.

vannoni

 

Un gatto che si morde la coda.

Il problema non è nuovo e la magistratura se ne occupa ormai da diversi anni, nel tentativo di regolamentare una materia delicata senza ledere uno dei principi fondanti della nostra democrazia, ovvero l'indipendenza dei giudici da qualsivoglia autorità, anche da quella degli scienziati.

I giuristi si sono chiesti, per esempio, che cosa è classificabile come prova scientifica, dal momento che la scienza entra a pieno titolo non solo nei processi penali, ma anche in quelli civili, per esempio nel campo dei risarcimenti assicurativi, in cui teoricamente è la medicina a dover dire se c'è stato un danno alla persona e di quale entità. Sono considerate prove scientifiche, oltre allo studio delle tracce biologiche (DNA, sangue) anche le perizie psicologiche e persino quelle informatiche che, per dare risposte, utilizzano strumenti che dovrebbero essere validati a livello scientifico. La definizione più condivisa (e anche la più ampia) definisce prova scientifica qualsiasi operazione probatoria (ovvero ricerca di una spiegazione) che usi strumenti di conoscenza che sono propri della scienza o che utilizzi tecniche e metodi propri della scienza.

Basta leggere con attenzione per comprendere che si tratta di un concetto tautologico: è scientifico ciò che è... scientifico! Rimane del tutto aperta la questione di fondo, ovvero chi sia l'autorità competente per decidere che un certo metodo o una certa opinione possano definirsi "scientifici". Nel nostro ordinamento giuridico non vi sono infatti norme precise in merito: nella maggior parte dei casi gli esperti di giurisprudenza si riferiscono agli articoli del codice di procedura penale che normano le cosiddette "prove atipiche", secondo le quali le parti in causa in un processo hanno diritto a portare qualsiasi prova ritengano utile a difendere la loro posizione purché non sia vietata per legge e non sia palesemente ininfluente ai fini della materia del contendere. In pratica il giudice può rifiutare una prova o un parere scientifico solo se per ottenerlo è stata violata la legge (è il caso, per esempio, delle prove che pretendono di appurare la verità oggettiva delle testimonianze, come le cosiddette macchine della verità che sono espressamente vietate). Può farlo anche se la prova è presentata in modo pretestuoso e non ha attinenza col processo in corso e se non "lede la libertà morale della persona" (in questa categoria ricade nuovamente la macchina della verità, in quanto interferisce con la libertà dell'imputato di difendersi a tutti i costi).

 

Esperti di cosa?

Le prove scientifiche vengono portate all'attenzione della giuria o del giudice attraverso l'attività dei periti, persone particolarmente esperte nella materia. Questo in teoria, perché nella realtà in Italia i requisiti per far parte del cosiddetto albo dei periti presso i tribunali sono piuttosto generici: basta una laurea in una materia affine a quella di cui ci si vuole occupare o una comprovata conoscenza del tema nei caso dei tecnici.

Ciò significa, per fare un esempio concreto, che sono autorizzati a fare perizie sullo stato mentale degli imputati sia gli psicologi sia i medici (in particolare psichiatri e neurologi), ciascuno dei quali utilizzerà gli strumenti che gli sono propri all'interno di un diverso quadro culturale di riferimento. Così capita che un processo che deve determinare la capacità di intendere e volere di un paziente colpito da una demenza, magari per decidere se deve essere affidato a un amministratore di sostegno, veda la compresenza di perizie psicologiche basate su colloqui di tipo psicodinamico, diagnosi neuropsicologiche che utilizzano test quantitativi normati o persino complesse perizie che ricorrono all'imaging cerebrale o ai test genetici. Non esiste uno standard né un obbligo e il giudice non è tenuto a chiamare un esperto piuttosto che un altro. Poiché la legge considera il giudice come esperto di legge ma non di tutto lo scibile umano, gli consente di ricorrere a un perito indipendente, che risponde solo a lui e non a una delle parti. Anche in quel caso, però, il giudice può scegliere chi più gli piace (magari sulla base del passaparola tra colleghi). Inoltre la richiesta di perizie indipendenti non è frequente, perché in quel caso tutti gli accertamenti sono a spese della collettività e, in tempi di spending review, si tende a evitare, accontentandosi delle prove portate dagli esperti di parte.

La revisione delle norme per l'iscrizione all'albo dei periti (o dei consulenti tecnici d'ufficio, come sono chiamati nel processo civile) è uno dei punti qualificanti sui quali stanno lavorando alcuni esperti del settore per migliorare il rapporto conflittuale tra scienza e tribunali. Come fa il giudice ad accertarsi che le tecniche usate dai periti sono corrette? Per legge, il suo ruolo è quello di "peritus peritorum" ovvero di "esperto degli esperti". È quindi compito suo verificare la scientificità del lavoro dei tecnici in una materia nella quale è, per definizione, inesperto, altrimenti non avrebbe fatto ricorso al loro contributo. È questo il maggior paradosso insito nella legge attuale, all'origine di tante sentenze "antiscientifiche" alle quali assistiamo negli ultimi anni.

 

Uno sguardo all'estero.

Esiste una soluzione? C'è chi ha cercato di fare meglio, stabilendo criteri oggettivi per l'accettazione di una prova scientifica in tribunale. È il caso degli Stati Uniti che hanno, in questo settore, una lunga tradizione che fa da modello anche per altri Paesi, come l'Italia. Una premessa: è bene ricordare che nel sistema statunitense la giurisprudenza costituisce un precedente, cioè le decisioni prese dai giudici in precedenza su casi analoghi hanno un valore legale, mentre nel nostro sistema giuridico le sentenze sono determinate dall'applicazione di leggi scritte dal legislatore e i precedenti, sebbene vengano comunque tenuti in conto, non fanno giurisprudenza. È su questa base che gli USA possono contare su due criteri importanti.

Il primo prende il nome di "criterio di Frye" e fa riferimento alla sentenza "Frye contro gli Stati Uniti" del 1923. Il signor Frye, accusato di omicidio, aveva chiesto di essere sottoposto alla macchina della verità. Era la prima volta e la Corte d'Appello del District of Columbia si trovò a deciderne l'ammissibilità. Poiché non sapeva come giudicare l'attendibilità dei risultati, si rivolse alla comunità scientifica. Per la maggioranza degli scienziati le risposte della macchina della verità erano gravate da tante incertezze da risultare inattendibili. Venne quindi fissato il criterio dell'accettazione generale: è ammissibile in tribunale una prova scientifica che è accettata dalla maggior parte della comunità scientifica di riferimento. Alla luce del criterio di Frye, per esempio, le prove portate nel caso Stamina da Vannoni non sarebbero stati ammissibili perché ritenute scorrette dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica.

Nel 1993, con il caso Daubert contro Merrel Dow Pharmaceuticals, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che lo standard di Frye da solo non basta e ne ha esteso i criteri. Il caso riguardava alcuni supposti effetti collaterali sul feto di un farmaco che provocava malformazioni. La casa farmaceutica aveva portato a sua discolpa gli studi scientifici pubblicati su riviste peer reviewed che dimostravano l'assenza di effetti teratogeni sul feto, ma i genitori dei bambini nati malformati avevano chiesto che fossero sentiti anche altri esperti in grado di portare studi scientifici non ancora pubblicati che gettavano una luce diversa anche sulle pubblicazioni della casa farmaceutica. Ovviamente gli avvocati della Merrel Dow si opposero in base al criterio di Frye, poiché un lavoro scientifico pubblicato su una rivista peer reviewed è per definizione una prova accettata dalla maggioranza della comunità scientifica di riferimento. Il giudice del caso Daubert, davanti alla richiesta di ammettere prove nuove, ribadì il principio della generale accettazione ma stabilì anche che la valutazione di una teoria deve essere condotta tenendo conto della possibilità di sottoporla a verifica empirica, di falsificarla o di confutarla (inglobando quindi nel sistema giuridico i criteri che sono propri del metodo scientifico). Inoltre satabilì che un singolo studio non basta ma che è necessario sottoporre le prove a una revisione critica da parte degli esperti del settore e, soprattutto, che per ogni prova scientifica deve essere indicato il margine di errore noto o potenziale della tecnica impiegata, perché nessun metodo, nella scienza, fornisce risultati sicuri al 100 per cento.

Proprio quest'ultimo è il punto più qualificante dei criteri di Daubert, che da allora sono un riferimento per tutto coloro che si occupano di questa materia: è il giudice ad avere sempre l'ultima parola, perché è lui a dover stabilire quale margine di incertezza, sempre insito nella scienza, è accettabile e quale non lo è. In Italia ciò significa che, dal momento che il nostro diritto prevede la tutela a priori, ogni volta che è possibile, del supposto colpevole (secondo il principio "in dubio pro reo", che tutela l'accusato ogni volta che non vi è la certezza della sua colpevolezza), sta al giudice decidere, talvolta anche contro il parere della scienza. Altri elementi possono concorrere a costruire la sentenza (considerazioni di tipo morale, sociale o legale): è "l'altra faccia della medaglia" delle sentenze antiscientifiche, che però tutela il principio dell'indipendenza della Legge dagli altri poteri e ne rinforza il valore di custode del patto sociale.

 

Perché non abbiamo ancora una norma che faccia propri i criteri di Frye e Daubert anche nell'ordinamento italiano? Questa domanda, più che agli scienziati o alla magistratura (che si è mossa con alcune circolari, suggerendo così di gradire una norma in tal senso) andrebbe posta al legislatore. Quel che è certo è che, nella pratica, qualcosa sta cambiando: anche grazie a un'attenta formazione dei giuristi su questa delicata materia, si cominciano a leggere sentenze che fanno propri i criteri di Daubert anche in assenza di un obbligo in tal senso (è quanto è accaduto, per esempio, nella sentenza di primo grado riguardo all'omicidio di Garlasco, in cui era accusato Alberto Stasi, assolto in primo e secondo grado e condannato successivamente). Ci sono casi di giudici che nominano periti indipendenti chiedendo loro di valutare se le tecniche usate dai periti di parte sono attendibili o meno.

È un cambiamento culturale lento ma inesorabile, al quale probabilmente farà seguito un giorno o l'altro anche un cambiamento nelle norme. È quindi giusto puntare il dito sulle "sentenze scandalo" che vanno contro anni e anni di ricerche scientifiche (come quelle che riguardano appunto la relazione tra vaccini e autismo) senza però mai perdere di vista il valore dell'indipendenza dei giudici.