markiv

Per alcuni, non per chi scrive, giustizia è fatta: secondo la corte d’assise di Pavia, il soldato italo-ucraino Vitaly Markiv (della guardia nazionale, equiparabile ai carabinieri) è colpevole di avere contribuito all’omicidio del fotoreporter Andrea Rocchelli e del giornalista e interprete Andrej Mironov, dissidente russo, il 24 maggio 2014 a Sloviansk, in Ucraina orientale, mentre insieme al fotografo francese William Rougelon si trovavano in zona di combattimento.

Nonostante sia incensurato e con buona condotta, la corte non ha concesso a Markiv le attenuanti generiche pur chieste dal pm e gli ha comminato 24 anni di reclusione contro i 17 avanzati dall’accusa. L’avvocato di Markiv, Raffaele Della Valle, ha commentato che una sentenza del genere «è quasi da andar via dall’Italia». L’articolo 533 del codice di procedura penale stabilisce che «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Ma, come vedremo, la ricostruzione dell’accusa manca di prove e dà adito a una marea imbarazzante di dubbi, non solo sul ruolo dell’imputato ma anche sullo schieramento che sparò i mortai fatali.

Prima, a beneficio di chi legge, ripercorreremo brevemente (ma non troppo) la vicenda, rischiando qualche semplificazione.

 

Lo scontro a fuoco di Sloviansk

Nel maggio 2014 Sloviansk era in mano ai separatisti sostenuti dalla Russia. Erano passati pochi mesi dalla Rivoluzione della Dignità (Maidan). Gli ucraini, impegnati in una operazione antiterrorismo (Ato), controllavano l’antenna televisiva sulla collina Karachun. I combattimenti erano intensi. Diversi giornalisti erano sul posto, alloggiati in hotel. Tra questi Rocchelli, Mironov, Rougelon. Il 24 maggio Mironov fece sapere a Rocchelli che si poteva andare in una zona interessante per scattare fotografie. Rougelon sentì e si unì ai due. Il gruppo scese dal taxi in un punto vicino a una fabbrica italiana di ceramiche diventata “centrale” dei separatisti. Dall’altra parte la collina con le postazioni ucraine, a una distanza in linea d’aria di 1,7 chilometri. I soldati della guardia nazionale avevano AK-74 (gittata massima qualche centinaio di metri), l’esercito anche i mortai, come i separatisti. Ovviamente la stessa fabbricazione sovietica.

Comparve sulla scena un ragazzo a tutt’oggi sconosciuto che in russo disse di andarsene perché c’era un cecchino. In quel momento cominciarono gli spari.

Mentre il ragazzo spariva, Rocchelli, Mironov e Rougelon trovarono riparo in un fossato che si rivelò fatale per i primi due, trafitti da colpi di mortaio. Rougelon si salvò, incontrò alcuni separatisti, gridò di essere giornalista e gli spari cessarono. Fu fatto passare. Più avanti montò su un’auto e sentì nuovi spari alle spalle (in aria, presumibilmente). Più tardi i separatisti (vestendosi in abiti civili) andarono a recuperare i corpi dei morti e li portarono con sé.

 

Come si arriva a Markiv

Il 25 maggio 2014 il Corriere della Sera pubblicò un articolo, in cui erano riportate frasi virgolettate di un soldato sulla collina di Karachun. L’intervistato era un soldato conosciuto dal giornalista Marcello Fauci, che lo chiamò dopo avere saputo delle morti e, stando a quanto emerso ufficialmente, fece ascoltare la telefonata anche alla giornalista del Corriere.

Gli investigatori identificarono la fonte proprio in Vitaly Markiv attraverso “incroci” sui social network. Ed è stato effettivamente lui ad aver parlato con Fauci. Tuttavia l’articolo presenta una serie di falle che è bene scoprire subito. Nell’articolo l’uomo è definito “capitano dell’esercito”, ma non comandava alcunché nella realtà. Il grado di capitano gli è stato attribuito dalla giornalista, che non lo conosceva: «Avevamo avuto l’impressione che fosse al comando di alcuni uomini», riferirà in udienza.

Quanto all’esercito, Markiv in realtà non era affatto inquadrato nell’esercito ma nella guardia nazionale: un altro assunto della giornalista non suffragato dai fatti. Come si è già detto, la guardia nazionale non possedeva mortai, pertanto è inverosimile il virgolettato «carichiamo l’artiglieria pesante». Che infatti Markiv nega di aver detto. Inoltre non si capisce come, a 1,7 km di distanza, il soldato possa avere identificato «due giornalisti e un interprete» quando è già complicato identificare la presenza di esseri umani che, comunque, erano nella fattispecie almeno quattro (compreso il tassista) o addirittura cinque (compreso anche il quinto uomo) e non certo tre.

È infatti pressoché certo che quella frase sia stata “suggerita” da Fauci (che già sapeva) nella conversazione. Dalle deposizioni di Fauci e anche di Markiv, infine, si evince che Fauci prospettò a Markiv che sarebbe venuto in quella zona di Sloviansk e Markiv gli rispose di non venire, perché era molto pericoloso. Quello che nell’articolo sembra un avvertimento generale (del tipo: ai giornalisti spariamo) diventa un consiglio ad un amico (del tipo: mi dici che vuoi venire? Non farlo, perché è pericoloso).

Il soldato fu arrestato nell’estate del 2017 appena atterrato a Bologna: stava andando, con la moglie ucraina, a far visita alla famiglia nelle Marche. Fu accusato di quel che era scritto nell’articolo: lui, un comandante, aveva ucciso Rocchelli e Mironov e tentato di uccidere Rougelon.

Markiv restò in carcere un anno prima dell’avvio del processo. Nel frattempo il pm dovette cambiare il capo d’imputazione: emerse che Markiv non comandava alcunché, ma anche che la guardia nazionale, inizialmente ritenuta un corpo paramilitare, non aveva mortai ma solo AK-74. I mortai li avevano l’esercito ucraino e i separatisti filorussi. Allora Markiv diventò colui che, insieme agli altri della guardia nazionale, aveva il compito di «segnalare le posizioni di persone sospette» a quelli dell’esercito (attraverso il proprio comandante in loco), i quali poi caricavano i mortai. Proprio così: per un compito militare, anche ammesso lo avesse eseguito, è stato condannato per omicidio. Nonostante l’articolo 51 del codice penale: «L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità».

 

«Presunto killer»

Tra le parti civili ammesse anche la Fnsi e l’Associazione Lombarda Giornalisti, difese da uno degli avvocati più garantisti d’Italia, Giuliano Pisapia, che alla fine aderirà alla tesi accusatoria ma non mancherà di essere sé stesso: lui, difensore dei giornalisti, stigmatizzerà in arringa finale un titolo di giornale («presunto killer»), affermerà che Markiv è un giovane soldato rimasto in carcere preventivo troppo a lungo (ormai due anni), contesterà la giornalista che sul Corriere aveva fatto pubblicare un articolo «un po’ ingigantito».

Intanto però il processo, nemmeno troppo mediatico in verità, è andato avanti, fondandosi sulla sostanza del racconto di quell’articolo e sulle due testimonianze di Rougelon, a distanza di anni l’una dall’altra e diverse in un punto importante: da dove provenivano gli spari? Nella prima testimonianza il francese affermò di «ritenere che fossero stati i governativi, senza però essere in grado di affermarlo», nella seconda di «non ritenere che siano stati i separatisti». E questo sebbene avesse indicato una direzione, e da quella parte ci fossero (e fossero molto più vicini) i separatisti.

La ricostruzione del pm vuole che, appena scesi dal taxi, i giornalisti fossero stati visti da Markiv. E poiché nei giorni precedenti i giornalisti «avevano stufato» con i loro articoli e reportage su Sloviansk, il soldato ne segnalò la posizione al suo comandante (Bogdan Matkivskyy, ora parlamentare, che la procura di Roma deciderà se indagare) il quale, a sua volta, la trasmise all’esercito che caricò i mortai e sparò una trentina di colpi al loro indirizzo, costringendoli nel fossato e poi finendoli. Un agguato, dunque, e non un’azione di normale combattimento.

 

Nemmeno una prova, vari indizi di innocenza

Non v’è prova, anzitutto, che i colpi di mortaio provenissero dalla parte ucraina. Anzi, Rougelon (nella sua confusione tra la prima e la seconda testimonianza) indica una direzione dei primi spari e da quella parte c’erano i separatisti. Il tassista afferma che gli spari scoppiavano «non lontano da me». Mironov, in un audio registrato poco prima che morisse, spiega: «Sono lì, stiamo in mezzo, qualcuno sta qua e sparano, anche qua vicino c'è un mortaio». E aggiunge: «C’è un cecchino vicino, che spara con quello che ha», il che è compatibile con la frase del misterioso ragazzo comparso e subito sparito, che, secondo quanto riportato da Rougelon, avverte il gruppo: «C’è un cecchino, dovete andarvene».

La fotografia del taxi (una vecchia Daewoo anonima), crivellato quando tutti erano già fuori, mostra fori in uscita sul tetto e in entrata sulle portiere, mentre gli ucraini stavano sulla collina, cioè in alto, e non avrebbero potuto sparare sulle portiere per fare uscire i proiettili dal tetto.

Non v’è poi prova che Markiv fosse di turno all’ora della fatale sparatoria (Matkivskyy, logicamente, non ricorda i turni, Markiv nemmeno). E se anche qualcuno della guardia nazionale segnalò davvero i giornalisti, non v’è prova che sia stato Markiv a farlo, anzi, dalla sua postazione la visuale verso la strada è ridotta, semi oscurata dalla vegetazione e da un edificio più in basso, lontana più d’un chilometro. A quella distanza non solo non avrebbe potuto distinguere un civile da un militare, ma non avrebbe nemmeno potuto identificarli come «due giornalisti e un interprete», come riportato nell’articolo del Corriere; avrebbe al massimo parlato di quattro persone (o cinque, considerando anche il misterioso ragazzo). Segno che l’identificazione, il ruolo di chi era sulla strada è stato “suggerito” dai giornalisti che parlavano con Markiv al telefono, anche se poi questo è finito nel virgolettato di Markiv.

 

Markiv era amico dei giornalisti, Rocchelli e Mironov dell'Ucraina

Vitaly Markiv era amico dei giornalisti. Li aveva conosciuti a Kyiv a Maidan. A voler usare l’articolo del Corriere, avverte i cronisti: «Non bisogna avvicinarsi». In seguito Fauci lo andò a trovare in ospedale, ferito; gli chiese di regalargli un giubbotto antiproiettile. Mesi dopo si rividero e Markiv gli portò il giubbotto. I giornalisti non credevano che Markiv avesse partecipato all’omicidio di Rocchelli, altrimenti con quale coraggio gli avrebbero addirittura chiesto un regalo dal fronte?

Quanto a Rocchelli, grazie alle sue foto di Maidan era considerato uno dei pochi reporter obiettivi e amici del popolo ucraino in quei mesi concitati in cui, dopo febbraio del 2014, il mondo cominciava a schierarsi tra chi sosteneva l’autodeterminazione di uno Stato indipendente e chi riteneva che invece la Russia avesse il diritto all’influenza politica sull’area ex sovietica.

E Mironov? Dissidente sovietico di lungo corso, dopo la dissoluzione dell’Urss si occupò di diritti umani in vari luoghi tra cui la Cecenia; era iscritto al Partito Radicale e lavorava anche con Amnesty e Memorial. Naturalmente non apprezzava il regime di Putin. Ora: la Russia sosteneva e sostiene i separatisti in Donbas, nonostante le dichiarazioni ufficiali di equidistanza. Cittadino russo è Igor Girkin (noto anche come Igor Strelkov), ex colonnello dei servizi segreti, comandante dei separatisti a Sloviansk e poi di tutta la “repubblica” di Donetsk. Amnesty, in un articolo pubblicato prima dell’arresto di Markiv, scrive: «Continuamente pedinato dai servizi segreti e minacciato per le sue attività di denuncia delle violazioni dei diritti umani in Russia, Mironov rimase infine ucciso in Ucraina il 24 maggio 2014».

Ma la procura della Repubblica di Pavia non ha mai chiesto nulla ai separatisti. Non ha mai cercato di interrogare né Girkin né altri. Ha assunto che i separatisti recuperarono i corpi, quindi non erano “i cattivi” della situazione. Ha ritenuto che Rougelon sia potuto scappare “grazie” ai separatisti, quindi questi non erano colpevoli (anche se gli spari cessarono quando Rougelon disse ai separatisti di essere un giornalista, con presumibile accento francese). Non ha tenuto conto che sia il ragazzo misterioso sia Mironov (nell’audio) parlano di un cecchino, di colpi di mortaio vicini. E vicini erano solo i separatisti. Rougelon vede solo separatisti quando si mette in salvo, non un membro dell’esercito ucraino. Quando gli sparano da dietro, mentre ormai è in auto, gli ucraini distano quasi tre chilometri.

Dopo la sentenza, diversi giornalisti (tra cui il francese Paul Gogo, a Sloviansk anche lui) hanno iniziato a scrivere post in merito: «Una sentenza piuttosto strabiliante per chi conosce un po’ il dossier. Essendo stato in prima linea in questo dramma, avrei voluto essere in grado di testimoniare». Rimane incomprensibile la ricostruzione della telefonata da cui è stato tratto l’articolo per il Corriere: Markiv dice di non aver mai detto che si sparava a chiunque passasse; tra i giornalisti non c’è accordo sulla lingua usata (italiano o inglese). Eppure l’articolo fondato su quella telefonata è la fonte principale dell’accusa, che (tra i 140 ucraini sulla collina) ha individuato l’unico che poteva individuare e l’ha considerato colpevole perché in un articolo era definito “comandante” (l’autrice in aula riferì poi che «avevamo avuto l’impressione che fosse al comando di alcuni uomini»). Ma quando si è capito che non comandava nessuno, non l’ha prosciolto.

Infine la procura non ha considerato che Mironov aveva ricevuto una telefonata che gli suggeriva di recarsi in un posto non meglio precisato per vedere cose interessanti. La destinazione reale era quel punto di strada o un altro? Forse Mironov era stato invitato alla fabbrica di ceramiche, “centrale” dei separatisti, con l’idea di visitarla, ma si trattava di una trappola ordita da Girkin per eliminare lui?