Il progresso storico è tutt'altro che un percorso lineare dalla negazione all'affermazione della libertà. A livello politico e storico non esiste un prima e un dopo se non in senso cronologico, esiste semmai la dicotomia tra chiusura e apertura, tra società monista e società pluralista.

Minissale strisceped

C'è una sorta di storicismo latente, di fede (laica, liberale) nelle "magnifiche sorti e progressive" che si appalesa all'inizio di ogni nuovo anno, un sentimento che sottende la convinzione che il progresso (inteso nella più aideologica o, meglio, "metapolitica" delle sue accezioni) coincida col progredire temporale. È una specie di bias cognitivo figlio di una visione "stilizzata" della storia – dai graffiti sulle pareti delle caverne al rinascimento; dall'assolutismo al costituzionalismo liberale –, propinata sin dai primi anni di scuola come lenta evoluzione verso la definitiva emancipazione dell'individuo.

Questo "storicismo liberale" non si è mai strutturato come teoria vera e propria, ma si manifesta come mentalità, come sentimento latente (e dunque qualcosa di più interiorizzato di una teoria) peraltro in netta antitesi con le forme "ufficiali" di storicismo antologizzate nei manuali.

Lo storicismo hegeliano prima e il materialismo storico – e cioè la radicalizzazione marxista dello stesso – poi, sono stati il principale carburante filosofico-ideologico del comunismo, mentre lo storicismo romantico, reazionario della scuola storica tedesca degenerò, nel novecento, nello statalismo organico, base dottrinale (ancorché non sempre imprescindibile, anzi, talvolta meramente esornativa) dei fascismi.

Due forme diverse e simili al contempo di storicismo, una fatta propria dal marxismo-leninismo l'altra dalle destre radicali, hanno dunque rappresentato le fondamenta ideologiche dei totalitarismi che durante il secolo scorso hanno oppresso prima l'individuo e poi interi popoli, in nome della certezza – sublimata perfino a certezza scientifica nel caso del "socialismo scientifico", per l'appunto – che agendo in una certa maniera si stessero semplicemente assecondando le "leggi della storia", si stesse velocizzando il realizzarsi delle stesse.

Non è un caso: la libertà individuale non è mai stata considerata la meta finale di un percorso evoluzionistico-processualistico, quanto piuttosto un concetto metastorico e universale, un "diritto umano" valido di per sé, a prescindere da qualunque riconoscimento o disconoscimento del diritto positivo. Si tratta, com'è facile notare, del giusnaturalismo, nella fattispecie della dottrina dei diritti umani, in reazione alla quale – e questo è il nodo cruciale dell'intera riflessione – nacque proprio lo storicismo, prima quello romantico e poi quello hegeliano. Entrambi sono ostili alla pretesa che la forma di stato liberale rappresenti un modello di validità assoluta e universale: si tratterebbe invece di un espediente illuminista per neutralizzare e omogeneizzare abusivamente il volksgeist, e cioè "lo spirito del popolo", dei popoli, le loro individualità (così per il romanticismo); oppure sarebbe la sovrastruttura del modo di produzione borghese-capitalistico, e dunque qualcosa di contingente, tutt'altro che assoluto e universale (così per il materialismo storico).

Teorizzare dunque una forma "liberale" di storicismo, cullarsi su di essa, pensare che la storia sia un irresistibile cammino verso le libertà (negative, beninteso) e verso l'affermazione definitiva e la razionalizzazione delle istituzioni liberali preposte a difenderle, rischia di deresponsabilizzarci o di spingerci verso una forma di passività fatalistica, oltre a essere scorretto – come appena dimostrato – sul piano teorico-filosofico (un'impostazione storicista, anzi, è ipso facto ostile al liberalismo, come argomenta Popper in "Miseria dello storicismo") e anche su quello più propriamente empirico.

Giusto per attualizzare e fare un po' di esempi concreti: è il 2018, ma dalle nostre parti è tornato il proporzionalismo consociativo così come hanno voluto milioni di cittadini il 4 dicembre del 2016, sebbene a ipotizzare l'esistenza di fantomatiche "leggi della storia" destinate a perfezionare e razionalizzare i sistemi liberali si direbbe che tutte le democrazie debbano essere de iure o de facto presidenziali, sistemi à la Schumpeter piuttosto che à la Kelsen; è il 2018, e ci sono le unioni civili e il biotestamento (e il divorzio, e l'aborto ecc.) non perché così era inevitabile che andasse secondo le "leggi liberali della storia", ma perché ci sono stati prima Pannella col suo lobbying extraparlamentare e poi Renzi col suo stil novo a far sì che la volontà di una maggioranza fosse canalizzata e istituzionalizzata per mezzo di strumenti di democrazia diretta e indiretta.

Certo, si può parlare di "maturità dei tempi", di mentalità contemporanea, postmoderna, ma il fatto che si vada "avanti e indietro" all'interno delle epoche e non di epoca in epoca – nella storia premoderna si susseguirono repubbliche ed efferati autoritarismi, nel '900 democrazia liberale e totalitarismo – prova che il progresso storico è tutt'altro che un percorso lineare dalla negazione all'affermazione della libertà. L'unico progresso "lineare" è quello della tecnica (della tecnologia), che non coincide con l'inesorabile avanzare della libertà, anzi, spesso lo contraddice: i totalitarismi massimizzarono i consensi proprio tramite le tecnologie moderne (si parlò anche di "modernismo reazionario"), per il resto basta dare un'occhiata a Black Mirror, al cyber-plebiscitarismo dei Cinque Stelle che va per la maggiore o magari leggere Orwell.

Insomma, a livello politico e storico, lo si ribadisce, non esiste un prima e un dopo se non in senso cronologico, esiste semmai la dicotomia tra chiusura e apertura, tra società monista e società pluralista. La storia, comunque, ci ha dimostrato come un insieme di fattori contingenti possa al più convergere per favorire alternativamente l'affermazione dell'una o l'altra.

Il fascismo, ad esempio, sarebbe stato, secondo una delle molteplici teorie sullo stesso, forse la più suggestiva (ma non immune da semplificazioni deterministiche e generalizzazioni), un gigantesco sottoprodotto politico-istituzionale della transizione dalla società rurale a quella industriale. La transizione da quella industriale a quella post-industriale si sta anch'essa rivelando destabilizzante, tant'è che la democrazia rappresentativa arranca un po' ovunque e insegue maldestramente l'evoluzione delle cose, la destra radicale miete consensi, lo Stato-nazione è compresso dall'alto dall'internazionalizzazione dell'economia (e non solo) e dal "basso" da micro-nazionalismi.

I tentativi di gestire la fase post-rivoluzionaria della rivoluzione digitale e di regolamentare il cyber-capitalismo sono goffi, spesso intempestivi e inefficaci. Ma non si può lasciare che gli effetti collaterali socio-politici di questa transizione vengano capitalizzati dalle forze della chiusura, da chi si arrocca nell'idealizzazione (romantica, storicista) del passato o, per dirla con gli psicologi, nella retrospezione rosea per costruire le proprie "retrotopie" (Bauman).

Si tratta, ancora una volta, del tentativo di conculcare la libertà tramite la strumentalizzazione e la mistificazione della storia: bisogna attivarsi perché tale tentativo non vada in porto, e difendere la libertà da qualunque aggressione ideologica vestita da "buonsensismo cronologico", si tratti di "ripristinare" una versione truffaldina del passato (retrotopia) o assecondarlo perché si realizzi il futuro (utopia, che poi, si sa, è distopia). La libertà non è un bene generosamente donatoci dal tempo, ma un diritto da esercitare e da difendere giorno dopo giorno, o forse – per dirla con Oriana Fallaci – un vero e proprio dovere.