Molti studi dimostrano che non serve essere mostri per commettere crimini contro l’umanità, né serve odiare davvero: basta essere persone normali convinte che seguendo il principio di autorità non si è più personalmente responsabili. Ma è sufficiente rileggere ‘La banalità del male’ per coltivare il timore di essere tornati negli anni ’30? Possiamo spiegare il presente attraverso il passato? L’efficacia e i limiti di un paragone tornato di moda.

Ovadia ghiaccio

L’ultima iniziativa controversa del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nel momento in cui scriviamo, è quella di scoraggiare l’immigrazione clandestina separando genitori e figli e affidando i minori entrati illegalmente nel Paese ai servizi sociali. Una proposta che ha costretto l’American Academy of Pediatrics a emettere un comunicato stampa per ricordare che la separazione violenta dai genitori costituisce un trauma grave e che a molti americani, immigrati essi stessi, ricorda la crudeltà dei regimi del passato.

E c’è chi non esita a dichiarare: Trump è il nuovo Hitler, le sue iniziative istigano all’odio e mineranno alla radice lo spirito democratico del Paese. A mettere un freno ai paragoni ci pensano, paradossalmente, proprio coloro che hanno vissuto sulla propria pelle o su quella dei propri genitori gli effetti del “modello originale”: gli immigrati arrivati dall’Austria o dalla Germania nazista, oppure fuggiti dalle purghe staliniane.

Tra i molti che hanno preso la penna per dire che è ora di smetterla con i confronti arditi c’è Shalom Auslander, autore di “Il lamento del prepuzio”, rappresentante della giovane generazione di scrittori ebrei liberal, che ha scritto sul Washington Post: “Il signore anziano che sedeva a fianco a me ogni sabato in sinagoga era un sopravvissuto dell’Olocausto, così come la sua anziana moglie. E quindi la prima ragione per cui il confronto tra Trump e Hitler mi disturba non è perché sminuisce la morte di innocenti, ma perché sminuisce Hitler. Hitler credeva che gli ebrei fossero la causa di tutti i problemi e che lo sterminio fosse una soluzione. […] Aveva sviluppato una teoria elaborata, odiosa e deplorevole per spiegare come andavano le cose e vi credeva fermamente. Trump non l’ha fatto. Hitler era uno psicopatico, Trump è solo un coglione”.

Non tutti però sono d’accordo. A metà febbraio si è tenuto a Boston il meeting dell’American Academy for the Advancement of Science, la più grande società scientifica statunitense. Il tema delle politiche di Trump verso gli immigrati e verso la scienza ha riempito le sale del centro congressi, infilandosi tra una sessione scientifica e l’altra.

In prima linea nel lanciare l’allarme per il “clima di odio” nel Paese c’è un gruppo che esiste da ben prima dell’attuale Presidente: la Union of Concerned Scientists (ovvero l’“unione degli scienziati impegnati”) nata nel 1969 per opporsi all’uso delle armi chimiche durante la guerra del Vietnam, e cresciuta durante la guerra fredda grazie all’apporto dei fisici favorevoli a una moratoria nella produzione di armi nucleari. Tra i membri della UCS c’è anche Herman Winick, fisico noto per le sue posizioni pacifiste, promotore di iniziative come il sincrotrone SESAME che in Giordania raggruppa sotto lo stesso tetto scienziati israeliani, iraniani, giordani, pakistani e di molti altri Paesi che certo non si guardano con simpatia. Nato nella Brooklyn ebraica del 1932, ha assistito all’arrivo dei rifugiati europei della Seconda guerra mondiale e ha ascoltato dalla viva voce delle vittime la storia della diffusione dell’ideologia nazista.

“Forse Trump non è Hitler, ma le sue idee sono come un virus patogeno: minano le basi della convivenza sociale, e non solo negli Stati Uniti” ci dice mentre regge un cartello che recita “anche Einstein era un rifugiato” nel corso di una manifestazione contro i tagli della nuova amministrazione ai programmi di ricerca scientifica. “Chi fermerà l’ondata di politici razzisti in Europa e nel mondo ora che la più grande democrazia ha un capo che si permette di trattare gli esseri umani come oggetti, deportandoli senza tener conto dei loro legami familiari e lavorativi, oppure che trova normale dire che la tortura, se serve a sventare qualche attentato, può essere giustificata?”

Winick è convinto che tra la diffusione delle idee razziste e xenofobe in una società e la diminuzione della fiducia nella scienza esiste una relazione diretta. “La scienza si basa sui fatti, osserva e registra relazioni di causa ed effetto” dice ancora. “Chi ha una mente scientifica non si fa convincere facilmente, guarda ai numeri e capisce che gli immigrati non sono all’origine della crisi economica negli Stati Uniti (in realtà è il contrario) o che non sono i rifugiati dai Paesi islamici a compiere gli attentati (nella maggior parte dei casi, negli USA, si tratta di cittadini americani). Di questi tempi, invece, assistiamo al sonno della ragione”.

A sostegno di ciò che dice fa l’esempio della recente recrudescenza, in tutti gli USA, di minacce a scuole e centri ebraici, nonché delle numerose profanazioni di cimiteri ebraici. “Se davvero l’odio della popolazione verso certe categorie avesse radici sociali, verrebbero devastati i cimiteri latinos o islamici” continua. “Invece non è così, perché quando si libera la bestia dell’intolleranza, riemergono gli odi irrazionali che navigano sottotraccia nelle viscere della storia”.

Winick, come altri, pensa che alle politiche dell’odio bisogna resistere attivamente: non basta affermare di trovare deplorevoli certe iniziative, bisogna farsi attori, in prima persona, di azioni di resistenza. Ecco quindi il proliferare di decaloghi che invitano a telefonare tutte le settimane ai propri rappresentanti politici per protestare, e a dedicare parte del proprio tempo al volontariato con i richiedenti asilo: l’ultimo in ordine di tempo l’ha stilato il regista Michael Moore, e si possono riassumere nel motto “meglio troppo vigili che indifferenti”.

I sostenitori della resistenza attiva, tra cui star di Hollywood come Susan Sarandon e la senatrice democratica Elizabeth Warren, citano spesso due famosi studi di psicologia sociale per spiegare la necessità della loro azione: l’esperimento di Stanford e quello di Milgram. Nel primo Philip Zimbardo, professore di psicologia presso l’omonima università, mise in piedi per una sola settimana, nell’agosto del 1971, una prigione simulata, dividendo i propri studenti in carcerieri e prigionieri. Il gioco fu interrotto grazie all’intervento delle autorità universitarie perché il gruppo dei carcerieri aveva cominciato a sviluppare atteggiamenti aggressivi e repressivi nei confronti dei compagni con i quali, fino a pochi giorni prima, divideva i banchi.

Nell’esperimento di Henry Milgram, condotto presso l’Università di Yale nel 1961, si dimostra il potere dell’autorità nello spingere un individuo a superare i propri limiti morali. Basta che uno sperimentatore in camice bianco (che incarna l’autorità) ingiunga a un ignaro volontario di somministrare scariche elettriche di intensità crescente a un attore complice per ottenere obbedienza malgrado le grida e le suppliche della “vittima”. Milgram dimostrò che il 65 per cento dei partecipanti (su 40) accetta di somministrare scariche fino a voltaggi apparentemente molto elevati.

Henry Milgram ideò l’esperimento tre mesi dopo l’inizio del processo che lo Stato di Israele aveva messo in piedi contro Adolf Eichmann, uno dei principali artefici della Shoah. Tra gli spettatori del processo anche la filosofa Hannah Arendt che, con le cronache scritte da Gerusalemme per la rivista New Yorker, compose il libro “La banalità del male”. La teoria della Arendt (in parte contestata dalla storiografia moderna) è che non serve essere mostri per commettere grandi crimini contro l’umanità, né serve odiare davvero: basta essere persone normali convinte che seguendo il principio di autorità non si è più personalmente responsabili.

Anche i (pochi) studi neuroscientifici che si sono concentrati sull’odio come emozione confermano l’esistenza di due meccanismi distinti. Con uno studio di risonanza magnetica funzionale su 17 soggetti esposti alle fotografie di persone odiate, pubblicato nel 2008 su PlosOne, il neuroscienziato britannico Semir Zeki ha scoperto che questa emozione suscita l’attivazione di alcuni nuclei cerebrali profondi, come il putamen e l’insula, e della corteccia frontale e prefrontale motoria: tutti centri che processano le emozioni e pianificano eventuali azioni aggressive.

Darren Schreiber, dell’Università di Exeter, insieme ad alcuni colleghi dell’Università della California a San Diego, ha invece studiato il cervello di 82 persone, per metà dichiaratamente liberali e aperte al diverso e per metà conservatrici o chiaramente reazionarie, con manifestazioni evidenti di insofferenza per il diverso. Nei cervelli dei più reazionari la parte più attiva è l’amigdala, il centro della paura. Odio e atteggiamenti politici discriminatori avrebbero quindi basi neurali diverse e sarebbero sostenuti da sentimenti e vissuti differenti.

Il condizionale è d’obbligo perché gli studi improntati a una visione riduzionistica dei comportamenti umani complessi sono facilmente smentiti da studi successivi, ma con le sue risonanze magnetiche Schreiber è stato comunque capace di predire con un’accuratezza dell’82,9 per cento le intenzioni di voto delle persone. Rimane il fatto che un clima politico che fomenta la paura costituisce un buon substrato per atteggiamenti discriminatori anche senza arrivare all’odio (e un buon bacino di voti per la destra, se gli studi sono corretti).

È sulla base di queste conoscenze che i liberal, negli Stati Uniti e in Europa, tendono ad alzare l’asticella del livello di rischio e si sentono portati (spesso senza una reale base storica) a confrontare il clima attuale con quello degli anni immediatamente precedenti la salita al potere del nazismo. L’intolleranza verso il diverso o verso determinate categorie di persone (immigrati, musulmani e così via) non è appannaggio solo di una minoranza di esagitati ma può diffondersi anche tra coloro che accettano passivamente o persino sostengono azioni che violano le norme del diritto: si tratta di individui che aderiscono al principio di autorità e che tendono a disumanizzare chi è oggetto di tali violazioni.

Lo ha raccontato anche lo storico francese Henry Rousso, esperto di collaborazionismo nella Francia di Vichy, fermato per ragioni ancora non chiare all’aeroporto di Houston e testimone di una scena riportata dall’edizione francese dell’Huffington Post: “Sono apparentemente il solo europeo, il solo ‘bianco’” scrive raccontando delle lunghe ore passate sotto sorveglianza in una sala d’attesa aeroportuale. “Arrivano due ufficiali di polizia. Si dirigono verso un signore seduto davanti a me, forse un messicano, ben vestito. Gli mostrano un biglietto aereo e gli dicono che lo porteranno via. Invitato ad alzarsi, viene ammanettato, incatenato alla vita e gli vengono messi anche i ferri alle caviglie. Non posso credere ai miei occhi. Mi salgono alla mente immagini di schiavi: la poliziotta che gli mette i ferri ai piedi è un’afro-americana, vagamente a disagio. Immagino quanto tempo ci metterà ad arrivare all’imbarco. Verrò a sapere in seguito che ‘è la procedura’. Questo modo di fare, chiaramente indegno, sarebbe richiesto dalle compagnie aeree”.

Dare un volto e una storia alle vittime di ingiustizie e deportazioni: è questa la soluzione che il movimento anti-Trump (ma anche quello anti-Brexit) ha trovato per cercare di arginare la diffusione del virus della xenofobia e dell’odio nella società. Ecco quindi l’invito ai giornalisti a raccontare le vicende di coloro che sono bloccati alle frontiere, respinti con perdita, separati dalle famiglie e dagli affetti; le storie di scienziati, scrittori e artisti ai quali è stato negato l’ingresso (o il permesso di residenza). Obiettivo: combattere l’idea pervasiva che gli esseri umani possano essere giudicati in quanto gruppo (sociale, etnico o nazionale) invece che come individui.

L’idea sta prendendo piede anche in Germania, dove la cancelliera Angela Merkel sta tentando di convincere l’Egitto, la Libia e altri Paesi non propriamente democratici, in cambio di finanziamenti straordinari, a bloccare i migranti e richiedenti asilo che dalle loro coste si imbarcano per raggiungere l’Europa. La sezione tedesca di Amnesty International ha ricordato il tragico destino dei migranti nei campi di raccolta nordafricani, in cui avvengono stupri, violenze e casi di riduzione in schiavitù. Quando la cancelliera Merkel ha dichiarato che le istituzioni internazionali veglieranno sui campi di raccolta, alcuni giornali di opposizione hanno ricordato la tragica vicenda del campo di sterminio di Terezin, in Cecoslovacchia, visitato da emissari della Croce Rossa danese nel 1944, dopo che i nazisti lo avevano svuotato degli abitanti in eccesso e sottoposto a una sorta di maquillage, a cui fece seguito l’eliminazione di tutti i prigionieri.

Anche negli Stati Uniti la campagna basata sulla condivisione di articoli, video e meme sui social media è andata a pescare nella storia della Seconda guerra mondiale, utilizzando le fotografie degli sfortunati ebrei della St. Louis, una nave che nel maggio del 1939 riuscì ad attraversare l’Atlantico per sfuggire al regime nazista. Approdata a Cuba, allora di fatto una appendice degli Stati Uniti, fu rigettata per le proteste degli abitanti contro i nuovi immigrati. Giunta a Miami subì la stessa sorte: malgrado molti americani comprendessero il dramma dei rifugiati ebrei, erano ancor più convinti che non si potesse fare alcuna eccezione alla politica delle quote migratorie che gli USA applicavano con estremo rigore. La St. Louis tornò in Europa e molti dei suoi passeggeri morirono nei campi di sterminio.

Il Museo dell’Olocausto di Washington (uno dei più importanti al mondo) ha sostenuto la campagna, ma altri (anche nel mondo ebraico) l’hanno ritenuta esagerata o addirittura blasfema, un tentativo di comparare la situazione attuale all’incomparabile oppure, paradossalmente, un ulteriore rischio: sostenendo l’analogia tra la situazione attuale e quella della Germania dell’ascesa nazista si rischia di giustificare chi vorrebbe fermare i Donald Trump, le Marine Le Pen o i Geert Wilder (a capo del Partito per la libertà, movimento olandese apertamente razzista e in grande crescita) con metodi non propriamente democratici. L’odio contro l’odio: un vaccino che invece di contenere solo gli anticorpi contro la malattia trasporta il virus vivo e attivo.