Il contagio jihadista attraversa le frontiere siriane e punta all’Europa. L’Isis reagisce alle sconfitte sul piano militare, viralizzando la violenza islamista. È una riorganizzazione operativa, con obiettivi strategici, politici e mediatici precisi, che va oltre il progetto dell’ipotetico califfato e pone sfide difficili agli apparati di sicurezza occidentali.

Bertolotti bavaglio

I timori attuali e del prossimo futuro hanno origine indietro nel tempo. Tutto inizia nel 2003, con l’invasione statunitense dell’Iraq, e si infiamma nel 2012, con l’uscita di scena delle forze americane, il sostanziale collasso iracheno e l’espansione jihadista dello “Stato islamico dell’Iraq” che ha approfittato della guerra civile siriana.

Una guerra civile durata ben poco e presto trasformatasi. Dall’iniziale protesta contro il regime di Bashar al-Assad, laica e in parte conservatrice di orientamento islamista, il campo è stato occupato da gruppi armati islamisti e jihadisti. Dopo pochi mesi dal marzo del 2011, ai siriani si sono sostituiti gli jihadisti stranieri legati ad al-Qa’ida provenienti dall’Iraq, ma sostenuti da attori esterni. La guerra civile si è così trasformata in una proxy war, una guerra per procura, in cui gli Stati, a sostegno dell’una o dell’altra parte in base ai reciproci interessi nazionali, si inseriscono pericolosamente nel conflitto intra-musulmano (fitna) tra sunniti e sciiti.

Dalla parte dei ribelli la natura del conflitto è fluida e composta da non meno di cento gruppi combattenti, tra cui l’ormai marginale Free Syrian Army, di orientamento laico ma costretto recentemente ad allearsi con gli ex-qaedisti di Jabhat al-Nusra (oggi Jabhat Fatah Al-Sham), in contrapposizione a quello Stato islamico – principale realtà jihadista – che si trova ad affrontare crescenti difficoltà.

In relazione o in contrapposizione ai ribelli ci sono importanti attori esterni. Da una parte il fronte sunnita su cui si impone una Turchia – le cui derive autoritario-islamiste devono preoccuparci – intenzionata ad abbattere il regime laico di Assad e a schiacciare le velleità delle minoranze curde interna ed esterna (la stessa componente curda siriana sostenuta dagli Stati Uniti). Ma parliamo di una Turchia, oggi parte della “Coalizione contro il terrorismo”, che ha sostenuto anche i tagliagole dello Stato islamico. Una Turchia che ha contribuito alle atrocità della guerra, alimentando il flusso migratorio di disperati in fuga, ma ha la faccia tosta di ricattare l’Europa pretendendo 6 miliardi di euro per trattenere quegli stessi profughi di cui ha responsabilità; “o la borsa o la vita”, sembra essere lo sfacciato ragionamento del “sultano” Erdogan. Al fianco di Ankara, all’inizio del conflitto e con gravi colpe, anche Arabia Saudita e Qatar.

Sul fronte sciita c’è l’Iran, coerente sostenitore della Siria di Assad e timoroso di una sua caduta poiché questo consegnerebbe il paese all’islamismo sunnita e taglierebbe il collegamento con il libanese Hezbollah, l’altro importante attore al fianco dell’esercito siriano. Se Damasco dovesse cadere, per Hezbollah sarebbe la fine, Teheran perderebbe l’alleato sciita libanese e, dunque, la propria influenza sul paese dei cedri che rischierebbe una nuova guerra civile.

Ma il ruolo delle grandi potenze è non meno importante. Gli Stati Uniti, dopo aver sostenuto gruppi islamo-jihadisti contro il regime siriano, ora sono nella difficile situazione di dover contenere gli effetti di un vaso di Pandora che non può essere richiuso: contrastare la minaccia del nuovo terrorismo insurrezionale di cui sono co-responsabili. Ma parliamo di Stati Uniti, alla guida della “Coalizione contro il terrore” insieme ad Arabia, Emirati e Qatar, che al Medio Oriente dedicano tempo e risorse col contagocce. Fatto il danno, ora la questione viene passata ad altri, con buona pace di un’Europa costretta a subirne il contraccolpo.

È vero anche che l’Europa, nella questione siriana, risulta “non pervenuta”; impotente risulta il suo rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’italiana Federica Mogherini. La Francia di Hollande è assolutamente marginale, ma non per questo meno pericolosa, almeno sul piano potenziale; a dimostrarlo sono le reazioni convulse seguite agli attacchi terroristici su suolo francese e che si sono concretizzate con raid aerei privi di rilevanza strategica ma che hanno elevato il rischio di attentati in Europa.

E se la Cina difende il governo siriano sul piano formale, la Russia si è sì militarmente impegnata a sostenere Assad, ma, soprattutto, è decisa a difendere il proprio interesse nazionale e una presenza nel Mediterraneo garantita dalla base navale siriana di Tartus. Una Russia che, coerentemente con il proprio disegno strategico, contrasta l’avanzata di tutti i gruppi ribelli e non solamente quella dello Stato islamico.

Quella a cui assistiamo è una guerra i cui effetti sono progressivamente passati dal livello locale (le città siriane) a quello regionale (l’Iraq, il Libano); effetti che oggi sono esplosi a livello globale, dall’Afghanistan all’Africa del nord e a quella sub-sahariana – in primis la Libia, ma anche Tunisia, Algeria, Nigeria, Mali – ai confini dell’Europa, come in Turchia – sempre più colpita da jihadisti sedotti e abbandonati – e nell’area balcanica, in primo luogo la Bosnia – dove, a 200 chilometri da Trieste, intere aree sono sotto il controllo degli islamisti radicali –, ma anche in Kosovo e in Macedonia.

Tale minaccia si è avvicinata all’Europa, colpendo i cittadini europei a Parigi, Bruxelles, Nizza, Ansbach. Insomma il pericolo si diffonde come un virus in grado di autoalimentarsi attraverso uno spirito di emulazione che si rinvigorisce con l’amplificazione mass-mediatica della notizia e sfrutta quelle frustrazioni individuali che cercano riscatto attraverso il martirio in nome, e attraverso la giustificazione, dell’Islam. Dunque, un fenomeno globale che avrà i suoi sviluppi evolutivi di crudele violenza e rapido adattamento alle contromisure che gli apparati di sicurezza nazionali sapranno mettere in atto.

Ma dove vuole arrivare lo Stato islamico? Quali sono i suoi obiettivi strategici e militari? Lo Stato islamico ha un obiettivo politico ben definito: la ricostituzione del califfato sul modello della massima espansione geografica dell’Islam tra l’VIII e il XV secolo. E il nuovo califfato, guidato dal auto-proclamato califfo Ibrahim Abu bakr al-Baghdadi, pur nella consapevolezza dell’irrealizzabilità dell’impresa, è riuscito a coagulare attorno a una visione idealizzata migliaia di volontari disposti a morire nell’illusione di un mondo nuovo, puro, apparentemente a portata di mano.

Un progetto che ha comunque realizzato un proto-stato teocratico sunnita a cavallo di quelli che furono i confini di Siria e Iraq, con proprie risorse finanziarie, un’amministrazione statale minimale e la capacità di governare su una popolazione che, nel momento di massima espansione, comprendeva 6 milioni di abitanti su una superficie di 250mila chilometri quadrati. Una realtà che persegue l’annientamento di tutto ciò che non è in linea con l’interpretazione di un Islam jihadista ultra-radicale: per questa ragione cristiani, yazidi, curdi e musulmani non aderenti a quanto professato con la violenza dallo Stato islamico sono stati eliminati insieme ai loro simboli materiali.

Un’espansione territoriale e politica, mossa in parallelo a quella mediatica, che ha portato alla globalizzazione dei successi-eccessi della violenza, dando così vita alla seconda anima dell’IS, quella del “fenomeno” Stato islamico – in parte distinto dalla realtà politico-territoriale – derivante da un’accorta strategia di marketing, la diffusione sul mercato del “terrore” dello Stato islamico, di “premium branding”, l’imposizione del proprio marchio sulla galassia del terrorismo contemporaneo, e, infine, di franchising, la diffusione di realtà affini sparse nel mondo musulmano e al di fuori di esso ma che si battono sotto la bandiera nera del califfato; un’evoluzione che ha portato alla sua progressiva comparsa in tutto il mondo.

Ma se lo Stato islamico ha perso la sua spinta vitale, dinamica ed espansiva, e anche terreno, capacità operativa e finanziaria, a causa dell’offensiva della “Coalizione” e del ridimensionamento del sostegno dei supporter sunniti, la sua riorganizzazione operativa, mutatis mutandis, gli consentirà di tenere posizione sul campo di battaglia ancora per un periodo di tempo significativo e, addirittura, di andare potenzialmente oltre lo stesso progetto dell’utopico califfato.

Lo Stato islamico, così come oggi lo conosciamo, potrà essere sconfitto, ma il “fenomeno” Stato islamico si sta già adattando, portando il conflitto da convenzionale ad asimmetrico: si imporranno i sempre più temuti attacchi suicidi che coinvolgeranno combattenti sempre più giovani tra le fila del califfato. È la cosiddetta generazione dei “leoncini”, adolescenti cresciuti nella folle idea di un califfato globale, educati alla violenza fin da piccoli. A questi si vanno a unire gli europei musulmani (prevalentemente di seconda o terza generazione, ma anche migranti e convertiti) disadattati sociali, casi psichiatrici, frustrati, socialmente emarginati che attraverso la violenza nel nome dell’Islam ricercano un proprio ruolo all’interno di una comunità di cui non sono mai stati parte e che nel concreto non esiste: la Umma, la comunità dei musulmani –anch’essa lacerata dai conflitti interni.

Il colpo di coda di uno Stato islamico ferito sarà un’ondata di violenza ideologica che cercherà di imporsi anche al di fuori dei confini mediorientali, così come sta già avvenendo in Europa e nel Nord Africa, e lo farà proprio attraverso la violenza individuale, imprevedibile e irrazionale dei cosiddetti “lupi solitari” e le azioni organizzate dei commando suicidi contro obiettivi simbolici e mediaticamente appaganti.

E il “fenomeno” Stato islamico, sintesi di esaltazione ideologica e violenza portate all’estremo, punterà al reclutamento di quei soggetti-tipo marginali e psicologicamente instabili di cui si è accennato. È questo il bacino di reclutamento del nuovo terrorismo insurrezionale di matrice jihadista: è la capacità di reclutare tali soggetti a fare la differenza trasformandoli in “armi intelligenti”, capaci di adeguarsi alla mutabilità della situazione. Questa è la minaccia con cui ci troveremo a confrontarci.