Mentre riprende la guerra tra toghe e partiti e si riaccende l'illusione di soluzioni giustizialiste al problema delle nuove Tangentopoli, la giustizia italiana rimane inefficiente e poco trasparente. Uno svantaggio competitivo per l'economia e un danno per la vita dei cittadini. Da qui nasce l’iniziativa di "Fino a prova contraria ", un movimento di opinione che chiede di "cambiare la giustizia per cambiare l'Italia". Ne parliamo con la presidente, Annalisa Chirico.

Quercetti Palazzaccio

Si poteva supporre che la caduta dell'ultimo governo Berlusconi e la decadenza del Cav. dalla carica di senatore mettessero fine alla guerra dei vent'anni tra giustizia e politica? Sbagliato. La stagione del braccio di ferro tra toghe e partiti non è stata archiviata. Si è trattato solo di una tregua armata, destinata a rompersi in un conflitto aperto. Forse perché le ragioni del contrasto non affondavano le radici solo nella particolare posizione di un indagato, imputato e condannato eccellente, cioè Berlusconi, ma riguardavano il modo di intendere l’amministrazione della giustizia e quel “controllo di legalità” assegnato agli inquirenti, che la magistratura associata, con i suoi rappresentanti, rivendica come caposaldo dell’equilibrio dei poteri costituzionali.

L'inchiesta sul petrolio della Basilicata, che ha portato alle dimissioni il ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, e l'elezione di Piercamillo Davigo a presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, hanno ufficialmente riaperto ostilità mai sopite e riacceso uno scontro durissimo. E hanno chiarito come questo dissidio abbia un carattere strutturale, non congiunturale, di tipo politico-culturale, prima che giudiziario.

Eppure, dalla fine del governo Berlusconi nel 2011 molto è cambiato: Matteo Renzi è il presidente del Consiglio, la Lega Nord è la principale forza del centrodestra, Forza Italia si è quasi dissolta, i Cinque Stelle sono diventati il partito delle procure. Il sentimento rancoroso dell'antipolitica, fomentato dai grillini e da una destra che, con Salvini, ritiene di aver ritrovato la verginità, è sfociato nel giustizialismo e nella "sete di sangue", per cui a ogni avviso di garanzia devono seguire necessariamente le dimissioni degli indagati e ogni inchiesta, anche appena avviata, deve fare ruzzolare qualche testa, come prova esemplare di riguardo alla moralità della politica. Al grido di "o-ne-stà, o-ne-stà", ma a prescindere dell'esito dei processi, e perfino delle indagini.

È una situazione analoga a quella dell’Italia pre-berlusconiana, con Tangentopoli, dove la cosiddetta “questione morale” era diventata il centro dello scontro politico e tutti gli indagati, senza differenze, diventavano preventivamente colpevoli e impresentabili. Corruzione dilagante e giustizia all’ingrosso, due facce della stessa anomalia.

Le riforme sulla giustizia di Berlusconi, arrivato a Palazzo Chigi come beneficiario di Tangentopoli e poi subito finito nel mirino delle procure, sono state improntate, per lo più, a un intento dichiaratamente difensivo, dal falso in bilancio, all’ex Cirielli, fino ai vari “lodi” finalizzati a garantire l’immunità processuale dell’allora capo del governo. Ma le riforme intese in senso generale sono rimaste nel regno delle intenzioni. A una delle più simboliche, quella sulla responsabilità civile dei magistrati, richiesta a gran voce dagli italiani in un referendum di quasi trent’anni fa (era il 1987), è toccato provvedere proprio al governo Renzi, a nome di un partito, il Pd, che storicamente l’aveva avversata come un attentato all’autonomia e all’indipendenza della magistratura.

Nella lunga guerra, che si è nel frattempo riaccesa, l’Italia non ha però conquistato una giustizia più giusta, più rapida e più trasparente. La conseguenza è che l'Italia è diventata, più di quanto già non fosse, un Paese ostile per gli operatori economici, nazionali e internazionali, e insopportabile per i cittadini, che dal “servizio giustizia” ricevono prestazioni tardive e scadenti, in un quadro di garanzie, sia sul versante civile che su quello penale, tutt’altro che rassicurante.

Peraltro, l’attenzione e la sensibilità per le questioni e le riforme della giustizia, fino ad oggi, è sembrata essere quasi un segno di un “conflitto di interesse” corporativo o giudiziario. Chi vi si impegnava in modo militante doveva essere per forza un indagato, un magistrato, o un avvocato, ovvero un politico loro fiancheggiatore. Che la giustizia, come il fisco, o il funzionamento della pubblica amministrazione, sia una misura concreta dell’efficienza e della competitività dello Stato, e un indicatore ragionevole della salute economica e civile del Paese, sembrava non pensarlo e non dirlo nessuno. Proprio da qui nasce l’iniziativa di "Fino a prova contraria - Until proven guilty", un movimento di opinione che chiama a raccolta quanti ritengono che la giustizia italiana sia il "grande fardello del Paese", il "principale disincentivo" per chi vuole investire in Italia.

Del board di ''Fino a prova contraria", la cui nascita è stata salutata da un lunch a Villa Taverna insieme all'ambasciatore statunitense John R. Phillips e alla professoressa Paola Severino, fanno parte ex magistrati, imprenditori, giornalisti, esperti di diritto e analisti come Edward Luttwak, Piero Tony, Patrizio Donnini, Luca De Michelis, Giuseppe Cornetto Bourlot. A guidarlo è Annalisa Chirico, giornalista e saggista: "Vogliamo cambiare la giustizia per cambiare l'Italia. Serve una giustizia più giusta e più efficiente per un Paese più competitivo. Oggi l'Italia è l'ottavo paese in Europa per investimenti diretti statunitensi; con una giustizia riformata sarebbe il secondo. Per vent'anni, nel nostro Paese la giustizia è stata un tabù e il garantismo è rimasto ostaggio delle faziosità partitiche, ridotto spesso a un mezzo per difendersi da inchieste giudiziarie senza mettere mano a una vera riforma del settore. Noi vogliamo ridare a questa parola il suo vero significato: la tutela delle garanzie è il fondamento di uno stato di diritto".

In uno stato di diritto l'uso delle intercettazioni, così come avviene in Italia, "è un abominio". Spiega Annalisa Chirico: "Le intercettazioni non dovrebbero mai uscire quando riguardano aspetti della vita familiare e privata. Che la persona sia indagata o meno non fa differenza. Noi siamo per lo stato di diritto, contro lo stato di polizia. Oggi in molte occasioni l'udienza stralcio viene elusa, con il risultato che il pm decide discrezionalmente cosa depositare e cosa no, senza un confronto con l'avvocato davanti a un giudice terzo".

Fino a Prova Contraria, infatti, contesta innanzitutto alla magistratura di essere poco trasparente e di avere un'eccessiva discrezionalità, non solo in relazione all'uso degli atti: "La nostra campagna più importante è quella per la trasparenza della magistratura, perché dalla trasparenza passa anche l'efficienza del sistema giudiziario, dato che troppo spesso l'irresponsabilità di certi magistrati si annida proprio nelle maglie dell'opacità del sistema". Un esempio? "I magistrati - prosegue Chirico - agiscono con enorme discrezionalità nella scelta di una serie di incarichi ausiliari, come periti, consulenti o commissari per la gestione dei beni sequestrati; si tratta di nomine che in alcuni casi vedono prevalere logiche clientelari e che portano a loro volta a inchieste giudiziarie".

C'è poi una questione legata alla produttività, per cui "ci sono tribunali come Torino e Marsala che hanno il 6% di cause civili più vecchie di 3 anni, mentre a Salerno e a Foggia il tasso raggiunge il 40%: come è possibile che, a parità di leggi e di risorse, ci siano queste enormi differenze tra un ufficio e l'altro?". Insomma, "che i magistrati italiani siano i più produttivi d'Europa lo dicono soltanto Davigo e Travaglio".

Fino a Prova Contraria, dice Chirico, ritiene che sia venuto “il momento di pretendere trasparenza non solo dalla politica, ma anche dalla magistratura. Pensiamo che servano meccanismi che premiano chi fa bene e che penalizzino chi, invece, sonnecchia". Sarà per questo che tantissimi italiani non credono più nella giustizia? "C'è una piccola parte della magistratura italiana obiettivamente politicizzata. È la più chiassosa e pericolosa. È un dato di fatto. La sensazione che certe inchieste che riguardano la politica non avvengano a caso, che abbiano una tempistica sospetta e che ci siano sentenze politicamente orientate è uno dei motivi per cui i cittadini non si fidano della magistratura".

Quindi aveva ragione Berlusconi? Oggi è il Pd ad essere la forza politica che incarna i valori del garantismo? "In realtà il centrodestra per vent'anni è stato garantista più a parole che nei fatti e, nonostante abbia governato a lungo, non è riuscito a realizzare una riforma della giustizia e non ne ha affrontato i punti nodali, pur avendo maggioranze che lo avrebbero consentito. La sinistra, dal canto suo, è disomogenea: è vero che il premier Renzi usa parole inequivocabili contro la barbarie giustizialista, però guardando il Partito Democratico non me la sentirei di dire che è il partito delle garanzie. C'è Renzi ma c'è pure Emiliano, per citarne uno. Si discute la riforma della prescrizione e si ventila l'ipotesi di estenderne i termini fino a 20 anni per i reati di corruzione: è una proposta folle, si può forse consentire allo stato di inseguire un cittadino per un lasso di tempo così lungo? È la solita storia: l'inefficienza dello stato, e dei magistrati che non vanno a sentenza, la paga il cittadino. Non mi sembra inoltre che si accenni alla separazione delle carriere o all'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale: il 70 per cento delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari quando il potere degli avvocati è pari a zero'.

Per la presidente di Fino a Prova Contraria, insomma, "solo con una magistratura più trasparente e responsabilizzata si può restaurare la fiducia dei cittadini nella giustizia". E solo una giustizia più veloce, certa e giusta può trasformare l'Italia in un vero stato di diritto, che sarebbe anche più competitivo e attraente per gli investitori.