Se in Europa sono, in massima parte, i legislatori che si fanno, o almeno si dicono, portatori degli interessi di riservatezza dei cittadini, negli USA è il contrario: sono le grandi imprese dell’ICT, come Google, Apple e Microsoft, a difendere la privacy degli utenti contro un’ingerenza statale sempre maggiore.

Scudiero polizia

Fin dalle rivelazioni di Edward Snowden sulle pratiche di sorveglianza di massa messe in atto dall’intelligence statunitense, gli Stati Uniti d’America sono diventati il tertium comparationis contro cui gli Europei hanno misurato le proprie virtù civili e democratiche.

Di qua noi, con il nostro “robusto” e democratico sistema di difesa della riservatezza di chiunque; di là loro, con un sistema legale poroso, giurisprudenziale, privo di strumenti orizzontali di tutela della privacy e perciò apparentemente più permeabile ad un uso aggressivo delle informazioni personali, innanzitutto da parte del mercato, e per finalità commerciali. Nell’era pre-Snowden deve essere stata questa lettura del contesto americano ad aver incubato lo scetticismo europeo circa la capacità di quel sistema legale di servire gli interessi della riservatezza.

Tanto che, perfino post-Snowden, al di qua dell’Atlantico lo stigma sociale per le violazioni del governo americano si è indirizzato, più che verso l’NSA o l’FBI, verso i campioni del mercato digitale americano – Facebook e Google sopra tutti - rei di aver costruito dei modelli di business che non avrebbero potuto essere vincenti senza essere o diventare in qualche modo abusivi delle libertà dei propri clienti e utenti. Non è perciò un caso che le due principali sentenze europee sul tema della privacy degli ultimi due anni abbiano avuto come bersaglio Google – con l’introduzione per via giurisprudenziale del diritto all’oblio – e Facebook - con l’abolizione del Safe Harbor, il patto di libero scambio di dati personali tra l’Ue e gli Stati Uniti.

Le cose paiono funzionare al rovescio negli Stati Uniti, dove è il mercato, rectius il capitalismo, ad aver brandito l’arma della rule of law contro l’eccesso di disinvoltura con cui le agenzie federali – col beneplacito di qualche giudice e il supporto del Congresso – attentano alla segretezza delle comunicazioni e alla sicurezza dei dispositivi elettronici degli americani (ma non solo).

I due alfieri dello schieramento pro-privacy negli States sono Apple e Microsoft, che stanno combattendo su un vasto fronte, dai tribunali al Congresso, una battaglia i cui esiti travalicheranno la giurisdizione statunitense e influenzeranno, in un senso o nell’altro, l’assetto delle libertà digitali nel mondo.

Il caso di Apple è noto. Almeno quello dell’IPhone del killer di San Bernardino. La società fondata da Steve Jobs ha resistito per settimane ai tentativi dell’FBI di ottenere una porta di servizio nei dispositivi che produce, perché ciò avrebbe compromesso in maniera perdurante e irrimediabile il sistema di cifratura degli IPhone. La vicenda si è chiusa a fine marzo con la mezza ritirata dell’FBI, che ha annunciato di aver trovato il modo di decifrare l’IPhone del killer di San Bernardino senza l’aiuto di Apple, così mettendo fine anche alla controversia legale che aveva instaurato in tribunale.

Se però su quel fronte l’FBI ha fatto un passo indietro, in un altro caso Apple ne ha compiuto uno in avanti, ottenendo una pronuncia a proprio favore. Richiesta ancora una volta dai federali di decifrare il contenuto di un IPhone appartenente ad uno spacciatore, la società ha fatto istanza a un tribunale di New York affinché la rigettasse, vincendo. La pronuncia del giudice Orenstein ha infatti stabilito che l’FBI eccede i poteri riconosciutigli dall’All Writs Act quando richiede ad una corte di obbligare Apple a dischiudere il contenuto di un iPhone, e che quella legge è in odore di incostituzionalità. Si tratta, di fatto, del primo precedente a favore della “cifratura” e di Apple, che potrebbe aprire scenari molto interessanti nella restante miriade di casi giudiziari pendenti tra la società e il governo.

In parallelo, Microsoft ha avviato una causa contro il Dipartimento di Giustizia per ottenere la declaratoria di incostituzionalità di una norma dell’Electronic Communications Privacy Act (ECPA), quella che autorizza le autorità giudiziarie americane ad emanare i cosiddetti “gag orders”, ovverosia degli ordini giudiziali che impediscono ai fornitori di tecnologia di comunicare ai propri clienti quando hanno l’account cloud sotto il controllo delle autorità. Secondo la società di Redmond, quella norma violerebbe il diritto costituzionale dei cittadini americani ad essere avvisati in costanza di attività investigative su informazioni o comunicazioni private, e ciò a prescindere dal fatto che tali informazioni o comunicazioni siano o meno ospitate in ambiente cloud. Negli ultimi 18 mesi Microsoft avrebbe ricevuto 2576 ordini di questo tipo, il 70% dei quali senza una data di scadenza.

Nello stesso tempo Microsoft sta resistendo in appello, in un caso diverso, contro un “warrant” contenente l’ordine di consegnare alle autorità americane delle email ospitate in server in Irlanda.

La contesa, da legale, si è fatta anche politica. Due senatori di opposta fazione, il repubblicano Richard Burr e la democratica Dianne Feinstein, hanno infatti presentato una proposta legislativa che introdurrebbe l’obbligo per i fornitori tecnologici di decifrare le informazioni a richiesta delle autorità, innescando la reazione di una coalizione di campioni del digitale, tra cui la stessa Microsoft, Google, Amazon e Apple, che in una lettera pubblicata qualche giorno fa hanno ammonito a non perseguire quella strada: essa, scrivono i firmatari, avrebbe “unintended consequences” sulla sicurezza degli americani. Ma avrebbe anche – e qui sta il passaggio secondo me più interessante della missiva – conseguenze negative sulla competitività dell’industria tecnologica americana, che vedrebbe i suoi utenti rivolgersi a competitor stabiliti altrove, ritenuti più affidabili in termini di sicurezza delle informazioni.

La dialettica instauratasi tra la Silicon Valley e il governo americano sul tema della privacy degli utenti di servizi digitali è paradigmatica sotto diversi punti di vista.

Innanzitutto essa contraddice l’idea, molto europea, che la protezione dei dati personali potesse affermarsi come “diritto fondamentale” ottriato dal regolatore sovrano, a prescindere e anzi contro gli incentivi economici e di mercato necessari ad adottare soluzioni tecniche che siano privacy friendly. Le controversie giudiziarie riportate sopra nascono invece dal combinato disposto di una spinta – la domanda di riservatezza di una fetta consistente di mercato – e di una preoccupazione – quella di Apple, Microsoft e gli altri a vedere la propria reputazione e dunque la propria competitività compromesse dalla condiscendenza allo spionaggio governativo, come esplicitamente dichiarato nella lettera inviata al Congresso.

Prendiamo Apple, ad esempio, che nel secondo trimestre del 2016 ha registrato, per la prima volta nella sua storia, una riduzione delle vendite di IPhone su base annua pari al 13%; senza voler inferire correlazioni indimostrabili, è comunque evidente che dalle parti di Cupertino sono molto sensibili al tema della reputazione della sicurezza degli IPhone.

E che il capitalismo californiano diventasse il migliore avvocato delle istanze di privacy diffuse nel mercato non era affatto imprevedibile. Si tratta di aziende data intensive, il cui interesse ad avere grande quantità e qualità di informazioni si salda con quello dei propri utenti a ricevere servizi sicuri che facilitino la vita di tutti i giorni, come ad esempio consentendo loro di portarsi un’identità digitale a spasso per il web (cos’altro è Facebook?), o acquistare qualsiasi cosa comodamente dal divano di casa su Amazon e attraverso un IPhone, da cui partono email conservate in infrastrutture cloud di Microsoft.

Una ricerca condotta dal Pew Research Center ha dimostrato una generale predisposizione degli intervistati a scambiare dati personali con servizi ritenuti utili; un altro sondaggio condotto sul caso Apple versus FBI ha invece rivelato che mentre un po’ più della metà degli intervistati sosteneva le ragioni dell’FBI, un cospicuo 33 per cento vi era invece contrario: una massa abbastanza critica da meritare rappresentanza da parte delle élite della Silicon Valley, che si confermano un segmento sociale ideologicamente ibrido, niente affatto ostile, in genere, alle ragioni del Governo, come dimostrato anche dalla tendenza a sostenere i Democratici, ma solo nella misura in cui le politiche pubbliche siano funzionali all’empowerment delle persone, perché da lì passa la capacità di queste ultime ad adattarsi alla necessaria e positiva distruzione creatrice provocata dal capitalismo (soprattutto quello della Valley).

Non è perciò da escludere che, nella lettura costituzionalmente orientata del diritto alla riservatezza e alla sicurezza delle informazioni difesa da Apple e Microsoft, stia in qualche modo risuonando anche l’eco di quella primigenia pulsione libertaria che per anni ha animato i pionieri del web.

Si tratta, in ogni caso, di un fenomeno molto americano. E tuttavia l’esito finale di questa contrapposizione si diffonderà in tutto il pianeta, sulle gambe del capitalismo della Silicon Valley.