La crisi che le istituzioni democratiche stanno vivendo attualmente appare senza precedenti: le sue cause vanno ricercate in una serie di fattori, tra cui la mediatizzazione esasperata del confronto politico, che porta all’impossibilità dell’approfondimento e, quindi della soluzione di qualunque vero problema.

Di Gregorio gargoyle

La democrazia è un regime 'sempre' in bilico. È difficilissimo trovare un periodo, una fase storica, in cui qualcuno non ne parli come di un sistema politico in crisi, precario e più o meno agonizzante. Per certi versi, questa caratteristica è connaturata alla sua natura di “società aperta”, plurale e dunque ancorata su istituzioni “naturalmente” discutibili e incerte.

C’è però una novità interessante nella crisi attuale dei regimi democratici. Oggi, a differenza del passato, non sembra esserci il timore di una transizione verso modelli totalitari o autoritari. Ciononostante, la decadenza delle istituzioni democratiche è più evidente e profonda che mai.

È una crisi di rendimento, di performance, che non mette in discussione il sistema, ma che delegittima le sue istituzioni e i suoi attori protagonisti come mai era accaduto in precedenza. La cittadinanza democratica sembra aver introiettato e fatto propria la celebre frase di Winston Churchill secondo cui “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre”. Non siamo soddisfatti, ma non vediamo alternative.

Dobbiamo accontentarci di questa situazione? Ovviamente no. Anche perché il fatto che oggi il regime non sembri in discussione non esclude che un domani le cose possano cambiare.
Da questo punto di vista, è necessario partire dai sintomi di questa crisi per provare a fare una “diagnosi differenziale” del malato democratico.

I sintomi principali, con andamento costante dal 1945 ad oggi, sono i seguenti:

- Il livello di fiducia nei partiti, nella classe politica e nelle assemblee rappresentative è in calo costante;
- il numero di elettori che si reca alle urne tende a diminuire;
- la scelta di coloro che votano è sempre più fluttuante e imprevedibile;
- il sistema partitico tende ad essere sempre meno strutturato e caratterizzato da un formato sempre più pluripartitico.

Lo scenario sembra abbastanza chiaro. La democrazia procede inesorabilmente verso il disimpegno politico, la scarsa partecipazione, una palese crisi della rappresentanza e un’imprevedibilità di fondo dei comportamenti elettorali, che se non sembra mettere in discussione il sistema democratico tout court, senz’altro destabilizza il livello delle istituzioni, delle classi dirigenti e del rendimento dei governi percepiti come sempre più impotenti.

Pharr e Putnam, nel 2000, sostenevano che le cause delle disaffected democracies fossero squisitamente politiche. La mia tesi è differente: la crisi attuale delle democrazie ha prevalentemente cause socio-culturali. La politica sembra essere in un vicolo cieco e a sbarrarle la strada siamo noi stessi, i prosumer della società dei consumi e dell’immagine, con una percezione della realtà quanto mai “mediaticamente determinata”, una “realtà simulacrale” – per dirla con Baudrillard – ormai più reale del reale.

La crisi democratica contemporanea è completa, nel senso che riguarda sia il versante dell’input (partecipazione, rappresentanza, competizione politica), sia quello dell’output (politiche pubbliche mirate a mantenere in equilibrio il sistema). Qualche anno fa Fritz Scharpf sosteneva che un sistema politico in equilibrio, riconosciuto come valido dalla sua comunità, doveva avere una doppia legittimazione, sia sul versante dell’input (poche forze antisistema e alto consenso), sia su quello dell’output (scelte di policy in grado di rispondere efficacemente alla domanda pubblica). Oggi, al contrario, sembra che siamo di fronte a una “doppia delegittimazione democratica”.

Sul lato dell’input, la crisi colpisce sia la partecipazione – evidenziata e spiegata dai sintomi riportati prima – sia la rappresentanza, crisi totale dei partiti in primis. Sul versante dell’output, invece è in atto una continua erosione della sovranità, dell’efficacia e dell’efficienza dei governi che sfocia in un drastico declino dell’accountability. Il “combinato disposto” di questi effetti contribuisce alla delegittimazione delle nostre democrazie e alla disaffezione crescente verso la politica.

Il driver più importante di questa spirale di delegittimazione – di cui non si vede la fine – è la mediatizzazione che ha, progressivamente, trasformato la politica, alimentando drasticamente la sua impotenza reale e ancor più quella percepita. La tesi è, in sintesi, quella di Christian Salmon, che ha coniato la formula della “cerimonia cannibale”: chi fa politica – per essere percepito e catturare la nostra attenzione sempre più scarsa nell’oceano di informazioni che ci “colpisce” a flusso continuo – è costretto a sovraesporsi mediaticamente, personalizzando il più possibile la sua offerta, facendo sensazione con le sue proposte (altrimenti non “buca”), promettendo “mari e monti” ed essendo pronto a spiattellare in pubblico il suo privato.

Il tutto per colpire le nostre emozioni più che le nostre opinioni, inseguendo sondaggi pressoché quotidiani sui nostri umori e trasformandosi così da leader a follower. Per certi versi, tutti i partiti oggi sono “populisti”, nel senso che plasmano l’offerta sulla base dell’emozione pubblica protagonista di una sondocrazia permanente.

La realtà mediaticamente determinata viaggia sulle frequenze e seguendo le convenienze della “media logic”. Quest’ultima segna il trionfo dell’immagine (e dell’immaginario), dell’istantaneo e dell’irrilevanza politica. La conseguenza è che ormai votiamo prevalentemente per brand individuali sulla base del loro volontarismo (impotente), delle loro biografie personali e, spesso, di non-notizie elevate al rango di notizie (gossip, retroscena, scandali più presunti che reali, storie di vita…).

La nostra preferenza diventa così una delega emotiva verso una persona sovraesposta personalmente e politicamente, costretta a semplificare e a banalizzare problemi complessi e irrisolvibili da singoli. La conseguenza è il fallimento inevitabile di chiunque abbia responsabilità di governo, ma soprattutto di un’intera categoria e dimensione della società: è il suicidio, mediaticamente assistito, della politica di cui noi, i prosumer che orientano le scelte dei media, siamo i principali artefici.

Prova ne sia la campagna elettorale in corso a Roma. Il dibattito pubblico finora si è concentrato su quanto sia bravo Giachetti in cucina, sulle presunte frequentazioni di Virginia Raggi, sulla gravidanza di Giorgia Meloni e su quella specie di reality show che è stata la corsa alle candidature del centrodestra. I cittadini non hanno – e non avranno fino a fine campagna – alcuna idea dei programmi né delle squadre di governo.

Ora, che l’irrilevanza possa fare notizia, perché diverte, può anche starci. Il problema è quando l’intrattenimento diventa il solo modo per veicolare ogni informazione, al punto da far sparire quelle che contano davvero, sostituendo le emozioni e i frammenti al ragionamento e al contesto.

Intelligenza collettiva e opinione pubblica informata, due capisaldi di una democrazia di qualità, sono oggi miraggi lontanissimi. E il problema, prima che politico, è antropologico. Siamo noi che stiamo uccidendo la politica, “divertendoci da morire”, per dirla con Neil Postman.