Se è vero che anche la tanto celebrata stampa anglosassone sbaglia, è vero pure che una scuola giornalistica come la nostra, fondata sul rigetto a priori dell’obiettività e sulla rivendicazione della partigianeria, non aiuta l’opinione pubblica a crearsi degli anticorpi per rimediare ai suoi errori.

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“La mia regola è che ogni notizia che riportiamo debba essere sostenuta da almeno due fonti che abbiamo già accertato essere fonti sicure in passato”, mi ha raccontato qualche mese fa in un ristorante di Pristina, in Kosovo, una collega albanese, che dirige una redazione televisiva composta da una decina di giornalisti. Le ho risposto che ero molto ammirato da una regola così severa e che non conoscevo molti casi in cui, in Italia, i miei colleghi applicassero al loro mestiere altrettanto rigore.

La mia collega ha annuito e con un sorriso sornione mi ha raccontato che all’inizio degli anni Novanta, quando con la fine del regime comunista vennero aperti i primi giornali liberi nella storia dell’Albania, il modello da cui presero ispirazione era il giornalismo italiano, che tutti i giorni vedevano sui loro televisori. Era un giornalismo, mi ha spiegato, fatto di “titoli forti, a volte urlati, molte opinioni, molte polemiche”. È un modello che dal suo punto di vista è in netta contrapposizione a un altro: quello anglosassone, ispirato allo stile sobrio e asciutto della BBC.

Quando, una quindicina di anni fa, la mia collega ha iniziato a lavorare, diverse testate stavano consapevolmente passando da un modello all’altro. È stato grazie a uno dei suoi primi caporedattori, oggi uno dei giornalisti più celebri del paese, che la mia collega ha iniziato a prendere come modello lo stile anglosassone che l’ha spinta a fissare regole molto severe e precise per i suoi giornalisti. Oggi il modello di giornalismo italiano le sembra un po’ approssimativo.

Mentre stavo scrivendo questo articolo, mi sono casualmente imbattuto in una conferma di queste parole. Un mio contatto su Facebook ha linkato l’articolo di un importante corrispondente italiano dall’estremo oriente a proposito di un test nucleare avvenuto in Corea del Nord, facendo notare una notevole sequenza di errori e inesattezze. Nell’ordine, l’importante corrispondente sosteneva di aver parlato con un regista sudcoreano morto da dieci anni, di aver ricevuto una confidenza anonima da un diplomatico che aveva partecipato alla riunione dell’ONU a New York - nonostante il giornalista si trovasse nel sud dell’India - e infine, descriveva il terremoto generato dal test nucleare sotterraneo come il più forte terremoto artificiale della storia. Una rapida ricerca su Internet sarebbe stata sufficiente a rilevare che gli Stati Uniti hanno fatto esperimenti sotterranei con armi potentissime che hanno causato fenomeni sismici ancora più forti.

È soltanto un piccolo episodio nella lunga storia dei corrispondenti italiani all’estero, una storia fatta di grande giornalismo e grande coraggio, soprattutto in zone di guerra, ma spesso macchiata da interviste inventate, numeri improvvisati, storie false, bufale e plagi. Ci sono corrispondenti famosi e spesso ospiti in televisione che nell’ambiente giornalistico sono oramai diventati degli zimbelli, evocati con grandi risate non appena più di tre giornalisti si siedono allo stesso tavolo. Errori, pigrizie e inesattezze non sono limitati ai pochi corrispondenti che i giornali italiani mantengono ancora in giro per il mondo: sono quasi altrettanto comuni quando la stampa si occupa di quello che avviene nel nostro paese.

Il 2015, ad esempio, si è chiuso con giornali e telegiornali impegnati a discutere la questione “68 mila morti a causa dell’inquinamento”. La genesi di questa notizia è surreale. Il 23 dicembre, in piena emergenza inquinamento, Beppe Grillo ha postato un articolo sul suo blog in cui metteva insieme due notizie senza apparentemente alcuna relazione l’una con l’altra. Da un lato, ricordava i problemi dello smog che in quei giorni erano particolarmente gravi nelle grandi città e in quasi tutta la Pianura Padana. Dall’altro, citava una stima dell’ISTAT, pubblicata alcuni giorni prima, in cui si accennava alla possibilità che nel corso del 2015 ci fossero state 68 mila morti in più rispetto al 2014. Nel suo post, Grillo è stato molto attento a non mettere esplicitamente in relazione i due fenomeni.

I dati dell’ISTAT, infatti, si fermano ad ottobre, e mostrano che i picchi di morti sospette sono avvenuti a gennaio, febbraio e luglio. L’emergenza inquinamento è cominciata soltanto alla fine di novembre. Dire che un fenomeno è stato causato dall’altro è come mettersi nei panni del lupo della fiaba di Esopo: troppo persino per Grillo. Il leader dei Cinque Stelle, probabilmente, sperava che qualcun altro facesse per lui il collegamento e la stampa italiana lo ha in gran parte accontentato. Per giorni il tema del dibattito pubblico è stato se davvero l’agnello potesse aver inquinato l’acqua del torrente che il lupo beveva più a monte. Il caso, fortunatamente, è durato pochi giorni. Gli stessi giornali che avevano titolato sul post di Grillo senza un minimo di fact-checking hanno poi pubblicato articoli di esperti e professori che dicevano chiaramente che quel collegamento non esisteva.

Quando gli errori e le bugie diventano un po’ più complicati da spiegare, di solito non hanno la fortuna di essere smentiti così rapidamente. Le decine di miliardi che avremmo dovuto spendere per ridurre il debito pubblico a causa del “fiscal compact” e i “60 miliardi di euro di corruzione” sono due cifre inconsistenti o semplicemente inventate che per mesi hanno monopolizzato il dibattito pubblico del nostro paese. Questi abbagli giganteschi fanno tanta più impressione se paragonati a quello che sta accadendo nel resto d’Europa. Dopo gli attentati di Parigi, lo scorso novembre, è stato celebrato in tutto il mondo il lavoro di Les Decodeurs, il blog di fact-checking e data journalism di Le Monde. Les Decodeurs ha lavorato in diretta e senza sosta per smentire le notizie false che venivano prodotte e diffuse in tempo reale nelle ore successive agli attentati (quasi tutte riprese dai giornali italiani, ça va sans dire, e alcune ancora presenti sui loro siti internet). Fa impressione notare come nessun grande quotidiano italiano possieda un singolo blog di fact-checking o data journalism.

“Ma non cadiamo nell’errore di credere che l’erba dei nostri vicini sia necessariamente molto più verde della nostra”, mi spiega Alexios Mantzarlis, fondatore di Pagella Politica e oggi direttore dell’International Fact-Checking Network presso Poynter. “Anche nel mondo anglosassone ci sono stati casi simili e con conseguenze ancora più gravi: le armi di distruzione di massa in Iraq oppure l’incidente nel golfo del Tonchino che servì come pretesto per l’escalation in Vietnam”.

Nessuna stampa o opinione pubblica al mondo è immune dagli errori. Quella italiana, però, sembra che “tra i grandi paesi sviluppati abbia anticorpi particolarmente deboli con cui difendersi”, spiega Mantzarlis. Il fact-checking interno ai giornali, cioè la presenza in redazione di una figura incaricata di verificare le informazioni pubblicate negli articoli, è sconosciuto. È sconosciuto persino il copy editor, il giornalista che ha il ruolo di rileggere e correggere la forma dei pezzi prima della pubblicazione. E anche il fact-cheking esterno, cioè realizzato da società specializzate, è molto raro: Pagella Politica è sostanzialmente l’unica grossa realtà che lo pratica. “Negli Stati Uniti” racconta ancora Mantzarlis “i giornali principali durante le elezioni fanno tutti fact-checking alle affermazioni dei candidati. In Italia abbiamo visto soltanto sforzi parziali, non convinti e presto dimenticati”. Senza contare che la stampa italiana non conosce il fenomeno delle correzioni, lo spazio dedicato da un giornale o un sito agli errori commessi e alle scuse nei confronti dei suoi lettori: “Difficile dire se per quanto riguarda errori o bugie ci sia in Italia una differenza quantitativa rispetto ad altri paesi, ma c’è indubbiamente per quanto riguarda l'onestà e la trasparenza con cui si ammettono i propri errori di fronte al pubblico”.

Le ragioni di questa arretratezza sono molte e sono state discusse a lungo da storici e decani del giornalismo italiano: una politica divisiva e partigiana, l’assenza di editori puri e la presenza di numerosi giornali di partito, di opinione o espressione degli interessi di determinati gruppi industriali; la diffusione dell’ignoranza scientifica, economica e matematica; il corporativismo dei giornalisti, le loro elevate tutele sindacali e la loro età mediamente elevata; il basso numero di lettori e la tendenza a parlare ad una piccola élite. Sono, ovviamente, tutte ragioni valide e che concorrono a rendere il giornalismo italiano poco equilibrato, trasparente e, soprattutto, impreciso.

Ma c’è forse un altro elemento, più impalpabile e difficile da afferrare. Quando la mia collega albanese contrappone il modello italiano a quello anglosassone non dice, in realtà, nulla di nuovo. Il giornalismo italiano ha consapevolmente rigettato il modello anglosassone e ha costruito una legittimità alternativa al suo lavoro. Come ricordano Ferdinando Giuliano e Christopher Lloyd nel libro “Eserciti di carta”, la grande stampa italiana e i suoi grandi giornalisti hanno sempre rigettato la pretesa di neutralità e oggettività tipica del giornalismo anglosassone. Invece, hanno rivendicato il diritto del giornalista ad essere partigiano e a rendere pubblici i propri bias ideologici.

È una tradizione che esiste fin dalla nascita del giornalismo italiano moderno nella seconda metà dell’Ottocento, ma che raramente è stata espressa con tanta chiarezza come nel primo numero del quotidiano Repubblica, pubblicato il 14 gennaio del 1976. Nel suo primo editoriale, il direttore Eugenio Scalfari descriveva così la sua nuova creatura: “È un giornale d’informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica dichiara esplicitamente di avere fatto una scelta di campo. È fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra”.

La “tradizione italiana” non rivendica il diritto a far prevalere le opinioni del giornalista sui fatti, anzi. Nel libro “La scomparsa dei fatti”, Marco Travaglio rivendica la possibilità di essere partigiani, di dichiararlo pubblicamente e, contemporaneamente, di fare un lavoro giornalistico rigoroso e aderente ai fatti. L’articolo forse più famoso di Indro Montanelli, il suo reportage dalla rivolta ungherese del 1956, è forse la vetta più alta di questo tipo di giornalismo. È un articolo pieno di opinioni di verve polemica e letteraria, che difficilmente avrebbe passato la censura di un severo editor americano. Ma è comunque un articolo equilibrato, che in maniera vibrante racconta aspetti indubbiamente veri di quella che all’epoca era una rivolta di comunisti contro altri comunisti, e non certo della borghesia ungherese, come faceva comodo raccontare sia ai comunisti italiani che ai democristiani. Purtroppo però l’articolo di Montanelli sembra più un’eccezione che una regola nel giornalismo italiano e in pochi sembrano essere stati all’altezza delle alte speranze di Travaglio, compreso Travaglio stesso.

Il mio sospetto è che, per quanto nobili, le premesse che sostengono la “tradizione italiana” rendano impossibile lo sviluppo di un giornalismo preciso e basato sui fatti. La psicologia ci insegna che per essere obiettivi bisogna superare i ripidissimi ostacoli che ci pone il nostro stesso sistema cognitivo. La forma con cui è costruita la mente umana rende difficile accogliere tesi e valutare onestamente i dati che falsificano i nostri pregiudizi. Anche le persone più determinate a restare obiettive prima o poi cadranno in una delle numerose trappole che i nostri cervelli ci tendono per proteggere le idee che ci sono più care. Detto questo, quanto è più vulnerabile chi, invece che cercare di limitare i propri pregiudizi, li esalta come una parte importante del proprio lavoro? Se fin dall’inizio accettiamo come dato di fatto il nostro essere partigiani, con quanta onestà potremmo valutare dei dati o dei numeri che confermano o smentiscono la nostra tesi? Non è un limite italiano, ma della stessa mente degli esseri umani.

Anche se questa sembra una condanna senza possibilità di appello, io rimango ottimista. Parlando con la mia collega albanese, non potevo fare a meno di pensare che il suo paese non ha certo meno problemi del nostro. Ha una politica altrettanto partigiana, industriali e criminali che cercano di interferire nel lavoro della stampa e una disponibilità di investimenti non certo più alta di quella italiana. E nonostante questo, sono bastati un paio di anziani decani del giornalismo locale con le idee chiare e molti giovani disposti ad accogliere un nuovo modo di lavorare per trasformare una buona porzione del giornalismo di un intero paese. Oggi la stampa albanese difficilmente può essere indicata come un modello. Ma è la prova che, volendo, le cose si possono ancora cambiare.