Netflix, un servizio innovativo che, dietro pagamento di una quota mensile, consente la visione, su qualunque apparecchio collegato a Internet, di film, serie TV e documentari, senza vincoli di quantità o di orario, si inserisce in un processo già in corso da anni, che sta portando alla fine dei media tradizionali e al trionfo del dispositivo unico da cui gestire gran parte delle nostre attività relazionali e culturali.

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In Italia è sbarcato Netflix.
Netflix non è una rete televisiva.

Nasce nel ’97 come concorrente di Blockbuster - poi ha iniziato a offrire un servizio di streaming online on demand, accessibile tramite abbonamento. E questo è rimasto. Una library, una videoteca digitale. Migliaia di film e di serie TV disponibili per lo streaming istantaneo su una smart TV o su qualsiasi altro device con una connessione. Poi Netflix ha iniziato a produrre fiction, alcune di grande qualità, e le ha messe nel suo catalogo, o le ha vendute a reti televisive. Il suo volume di investimenti in contenuti originali, 5 miliardi di dollari, è superiore a quello di BBC, ITV, HBO e Amazon messi insieme.
Netflix, e tutti i Netflix che verranno, cambieranno i consumi del nostro immaginario?

Parliamo di industria culturale, di audiovisivo, cinema e televisione, ma con una premessa: tra poco, molto poco, la televisione non sarà più televisione, il televisore sarà altro, e l’immaginario pure. Le categorie di universalizzazione dell’immaginario saranno ben diverse rispetto a quelle attuali.
Non è una rivoluzione. Ciò di cui stiamo parlando è un processo inesorabilmente in atto da molti anni e che, con una forza propulsiva inarrestabile quanto la tecnologia, sta trasformando i consumi culturali in mezzo mondo, e lo farà anche in Italia.

Parliamo di pubblico.
La televisione generalista non è morta, e molto probabilmente non morirà ancora per un po’. È il suo pubblico che sta morendo. Muore perché è vecchio, muore per la sclerosi dell’offerta, muore per noia, muore per la trasformazione dei tempi e dei ritmi del tempo sociale e della gestione del tempo libero, muore perché sostanzialmente l’offerta televisiva generalista – quella definita uno verso tutti – racconta categorie sociali, culturali e di consumo, che sono ormai meri simulacri, o scatole vuote, piuttosto che realtà.

Fino a ieri, per l’individuazione del pubblico ideale, imperava l’onnipotenza delle previsioni psicografiche. Oggi queste analisi danno le certezze di un rabdomante. Ci si affida quindi ai focus group. Ma adesso sbagliano anche i focus group. Come risolvere la questione? Basta rendersi conto di una cosa semplice, come la direbbe la nonna: il pubblico non è più quello di una volta. Siamo passati dal definito al fluttuante, all’iperdinamico – nei target sociali e nelle categorie tutto si riconfigura, di giorno in giorno.

Parliamo di soldi.
In Italia l’industria dell’audiovisivo produce un fatturato di circa nove miliardi di euro – gli addetti, per lo più non garantiti, sono più di duecentomila. Il mercato italiano ha ben poco impatto sul mercato internazionale. Il fatturato audiovisivo dei 50 gruppi più importanti del mondo è passato da 361,5 miliardi di dollari nel 2009 a 425 miliardi nel 2013, e l’anno scorso è cresciuto circa del 5%. Tra le 50 società leader 30 sono statunitensi, il loro peso sul fatturato globale è del 68%.

Parliamo di futuro.
In base alle stime dell’ultimo Global Entertainment and Media Outlook, nel 2018 i ricavi dell’home video elettronico negli Stati Uniti supereranno quelli del cinema: il primo raccoglierà 13,8 miliardi di ricavi, contro i 13,1 miliardi del secondo. Nel mercato americano l’home video elettronico diventerà così il principale habitat economico del mercato dell’entertainment. Questa tendenza diverrà presto mondiale.

Ma che cosa è l’home video elettronico? È l’insieme dei servizi digitali premium e on demand e dei servizi streaming accessibili da PC, tablet, smartphone, smart tv, televisori con annesse box tv che permettono loro di essere connesse on line. Negli Stati Uniti questi servizi sono forniti da aziende come Netflix e Hulu e da canali premium via cavo come HBO, Starz e altri.

In poche parole, cosa sta succedendo?

Accade quello che certi teorici dei media avevano già previsto più di venti anni fa. Il televisore sta lasciando il posto a quello che chiamavano il teleputer. È la teoria della convergenza mediatica. Una teoria che è una traduzione tecno-industriale delle teorie evoluzionistiche ed etologiche. In sintesi: le trasformazioni tecnologiche – sintetizzabili in universo digitale – stanno facendo sì che i media della modernità non trovino più nuove formule di trasformazione e, quindi, trovandosi in un ambiente ostile ai loro caratteri genetici, il digitale appunto, smettano di evolversi e quindi di organizzare la sopravvivenza.

I vecchi media non possono più competere in un mondo che sta cambiando le sue reti e flussi di informazioni - una mente con sinapsi organizzate in modo antitetico rispetto a quella del mondo ante silicio. In questo mondo i vecchi media scompaiono, scompariranno come i dinosauri, ma non del tutto. Fonderanno le loro istanze in un unico medium, un conglomerato tecnologico fatto di device in interconnessione continua, in un mondo in cui anche l’essere umano si trasforma, volente o nolente, in una sorta di device in carne ed ossa.

Più chiaramente.
Il consumo generalizzato e l’industria televisiva e cinematografica uno verso tutti non avranno più ragione di essere nelle società, quelle occidentali, dove i media si sono trasformati in self media e tutti sulla stessa piattaforma tecnologica. Giornale, libro, macchina da scrivere, televisione, radio, piazza, lettera, telefono, comunicazione orale vis à vis, visione (certo non esperienza) del mondo sono attività cognitive, relazionali e di consumo culturale che già vengono in parte vissute e si vivranno sempre di più su di uno stesso dispositivo tecnologico. Piccolo come un orologio, piccoletto come uno smartphone, medio come un computer, grande come uno smart tv; dispositivi mediatici che non sono “diversi” ma “complementari” volti eterogenei di un unicum mediatico proteiforme; tutti insieme fanno un solo medium. Che portiamo o teniamo con noi.

Addio tv generalista, ma pure addio ai singoli media d’un tempo. Le loro “memorie di forma” saranno però parte organica del nuovo medium.
Mono medium dove c’è tutto, dove tutto è frutto di una trasformazione e di linguaggi frutto della convergenza e della uniformazione cognitiva e tecnologica.

Il consumo audiovisivo, come molti altri consumi culturali, si giocherà liberamente, on demand, decronologizzato, sul nostro device, nel momento in cui lo vorremo, quando lo vorremo e in base a quei prodotti che di volta in volta avremo liberamente scelto in virtù del nostro hic et nunc temporale.

Questo accadrà nel mondo. In Italia no. O almeno non così rapidamente.

O meglio, gli usi ed consumi audiovisivi anche da noi si stanno riformulando, certo. Ma qui abbiamo i trust, un mercato fintamente libero ma in realtà gestito a cartelli, rendite di potere televisive e mediatiche pubbliche e private, un digital divide da terzo mondo, e quindi tutto - come al solito - sarà più lento. Con buona pace dei Netflix d’ogni sorta.