Negli Anni Quaranta del Novecento, con l’Europa scossa dalla guerra e dalle più distruttive e anti-umane ideologie, alcuni uomini, al confino su un’isoletta del Tirreno, immaginavano il futuro di un’Europa unita. Perché oggi dovremmo essere meno ambiziosi?

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La vecchia contesa tra europeisti ed euroscettici, con i primi favorevoli agli Stati Uniti d’Europa e i secondi interessati solo a un’area di libero scambio e a nessuna integrazione ulteriore, appare francamente superata. È ormai un esercizio di fioretto tra gentiluomini, rispetto alla frattura profonda e radicale che abbiamo di fronte. Un virus molto pericoloso si aggira per l’Europa: il populismo. In Grecia come nel Regno Unito, in Italia come in Francia, in Ungheria come in Spagna, in versione ultra-nazionalista, sinistrorsa o anti-politica. Non è la prima volta che accade, e i precedenti del Novecento sono tutt’altro che rassicuranti.

C’è una convinzione diffusa secondo cui l’origine dei problemi delle società europee risiede in un “modello” economico e istituzionale da superare, o addirittura da sovvertire: il mondo delle banche e della finanza, il sistema dei tecnocrati e dei grandi complotti. Il neoliberismo, come usano chiamarlo. Chi sposa questa visione nutre l’illusione che chiudersi nei propri confini e nel “piccolo mondo antico” possa tenere al riparo dai pericoli esterni.

In questo clima, il dibattito politico nazionale è quanto mai provinciale e involuto. Anche i governi guidati da partiti ispirati alle grandi tradizioni politiche finiscono per “raccontare” il loro rapporto con l’Unione Europea in termini rivendicativi e muscolari: all’Europa chiediamo questo, l’Europa ci dia quell’altro. L’Europa come un’entità indistinta, da cui ottenere benefici e sconti, sulla base dei quali poi valutare la capacità di quel governo nazionale.

Intorno all’Europa, intanto, il mondo brucia. Divampano le fiamme in Siria, in Iraq, in Libia, in Yemen, nella vicinissima Ucraina, in Eritrea, in Nigeria. Altrove scoppiano tensioni e altre presumibilmente ne scoppieranno, sia dove c’è fame di cibo, sia dove c’è fame di libertà. Tutto ciò che giace appena oltre i confini orientali e meridionali dell’Europa sta crescendo in dimensioni, in potenza, in complessità e instabilità. Il nostro è invece un continente sempre più vecchio e piccolo negli equilibri demografici ed economici globali.

Vista da fuori, l’Europa è come una foresta. Ma partiti e media nazionali raccontano solo le vicende di uno sparuto gruppo di alberi a vista. Il sistema politico-istituzionale dell’Unione Europea è ancora fortemente dominato dai governi nazionali, che rispondono esclusivamente ad un elettorato locale.

L’Europa necessaria e auspicabile è invece un attore globale, capace di esercitare un ruolo forte sullo scacchiere planetario, di esprimere una visione possibile nelle relazioni e negli equilibri internazionali. C’è bisogno di leadership europee e di visioni lungimiranti, ma, finché gli attori principali della scena politica europea saranno gli Stati-nazione e i partiti nazionali, con il loro orizzonte corto e provinciale, non emergerà né leadership, né visione.

La competizione fiscale e regolatoria tra paesi, regioni o città è un valore da promuovere e di cui siamo sostenitori, perché la forza dell’Europa sta nella sua varietà. Occorre però che i cittadini europei percepiscano quanto sia prezioso lo spazio civile di libertà, creatività, tolleranza e pluralità del nostro continente. Il populismo, invece, sta diffondendo una pericolosa eurofobia tra gli europei.

Come contrastarla? Occorrerebbe una nuova “impresa” politica, un movimento culturale e politico pan-europeo capace di rivolgersi direttamente ad un’opinione pubblica continentale, scavalcando le forme e l’intermediazione dei governi e dei mezzi d’informazione nazionali.

You may say I’m a dreamer, but I am not the only one, si può dire citando una canzone. Negli Anni Quaranta del secolo scorso, con l’Europa imbevuta di nazionalismo e scossa dalla guerra e dalle più distruttive e anti-umane ideologie, a Ventotene degli uomini al confino immaginavano il futuro di un’Europa unita. Perché oggi dovremmo essere meno ambiziosi?


Dal Manifesto di Ventotene:

“La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale”.