Dai primi scatti della fine dell’800 alle nuove tecnologie fotografiche, la storia e il successo di National Geographic insegna come ancora oggi sia possibile informare correttamente ed emozionare al tempo stesso.

 

C’è stata un’epoca in cui la strada era prima di ogni altra cosa avventura, racconto, e soprattutto documentazione. Racconto fotografico, oltre che narrativo, fatto di scatti realizzati con attrezzature pionieristiche lungo rotte impervie che ancora non potevano essere definite “strade”, ma la cui scoperta andava divulgata. L’istituzione che forse più di ogni altra ha contribuito a lastricare queste strade è la National Geographic Society, della quale quest’anno ricorrono i 125 anni dalla fondazione. A Roma, al Palazzo delle Esposizioni, una mostra che consigliamo di vedere ne celebra l’anniversario e ne racconta il lunghissimo e paziente  viaggio attraverso l’esplorazione, la divulgazione scientifica e la razionalità. Un viaggio che Strade, alla sua prima uscita, non poteva trascurare. Perché se c’è una lezione che possiamo trarre dal successo del rettangolo giallo di NatGeo, è che anche al tempo di internet non ci sono scorciatoie alla conoscenza, e che questa non può che essere frutto di fatica, passione e trasmissione sistematica delle competenze, da quelle tecniche – come si scatta una foto di qualità – a quelle scientifiche e analitiche, che permettono di interpretare correttamente la realtà che pretendiamo di raccontare.

E dato che nella stessa occasione si festeggia anche il quindicesimo compleanno di National Geographic Italia, di questo viaggio e di queste strade andiamo a parlare con Marco Cattaneo, che della rivista italiana è direttore dal 2010, e che ringraziamo per le straordinarie immagini che ci ha concesso.


Dunque, Marco: 125 anni di National Geographic Society, e 15 anni di National Geographic Italia. Non può che essere una storia fatta di immagini: tutte, per un motivo o per un altro, immagini straordinarie. Se dovessi metterne in fila alcune, che raccontino per flash back questa lunga storia, quali sceglieresti?

Facciamo un elenco, non per importanza, ma cronologico. Perché ogni immagine ha una sua valenza storica. Comincerei dal ritratto di Robert Peary stravolto dalla fatica dopo l'impresa del 1909 in cui tentò di raggiungere il Polo Nord. E dichiarò di averlo fatto, ma dopo una lunga controversia pare che ci sia solo arrivato vicino. Poi metterei la foto del Machu Picchu scattata da Hiram Bingham poco dopo averlo scoperto, mentre un esercito di abitanti locali lo aveva aiutato a liberarlo dalla vegetazione. E ancora Jane Goodall e Dian Fossey, Jacques-Yves Cousteau, La prua del Titanic appena individuata da Robert Ballard sul fondo dell'Atlantico, fino a James Cameron che si prepara a inabissarsi nella Fossa delle Marianne, nel 2012. Però aggiungerei quasi d'obbligo Sharbat Gula, la ragazza afghana ritratta da Steve McCurry, la foto più famosa degli ultimi trent'anni. E due scatti che mi stanno molto a cuore: le tre geishe immortalate in Giappone a inizio Novecento da Eliza Scidmore e colorate a mano, e un meraviglioso bianco e nero di Maynard Owen Williams al mercato di Herat, in Afghanistan, datato 1931.

La National Geogaphic Society è nata in un epoca nella quale l'esplorazione era veramente roba da pionieri, e in cui i reportages di viaggio avevano un fascino letterario, prima ancora che divulgativo. Da allora non è solo cambiato il nostro modo di viaggiare, sostanzialmente alla portata di tutti, ma anche il modo di accedere alle informazioni, trasformando radicalmente il nostro punto di vista sul mondo. Come è possibile che National Geographic non sia stato travolto da tutto questo, e non appaia oggi come un prodotto obsoleto? Non può essere solo una questione di belle fotografie.

Credo che il segreto sia proprio nel numero di ottobre, un numero speciale dedicato al potere della fotografia. Lì, tra le altre cose, c'è un servizio sul nuovo mondo della fotografia, un mondo in cui «siamo tutti testimoni», ognuno armato di smartphone. E National Geographic rimane all'avanguardia anche in questo. Il magazine ha già scelto di pubblicare servizi realizzati con il telefonino, a dimostrare una capacità di adattarsi alle nuove tecnologie fotografiche che dura da tutta la sua storia. Questa flessibilità permette agli inviati di NatGeo di usare gli strumenti più innovativi, e di per sé non è poco. Poi, a mio parere, c'è la capacità di costruire storie per immagini e per esplorazioni. Quindi non va sottovalutato il lavoro dei photo editor e dei grafici, che selezionano trenta immagini da montagne di foto, letteralmente, per costruire una narrazione (anche se il termine è un po' abusato). Basti pensare che l'anno scorso un fotografo NatGeo che ha realizzato un servizio per l'edizione italiana ci ha mandato un hard disk con 58.000 scatti. Ecco, la capacità di selezionare, valutare e ricostruire una storia da questa immane documentazione è uno dei segreti per cui National Geographic rimane un prodotto editoriale senza rivali.

Raccontaci la tua, di storia, con National Geographic.

La mia è una storia recente. Il gruppo Espresso, che pubblica l'edizione italiana, e con cui lavoro da oltre vent'anni, mi ha affidato la direzione alla fine del 2010, quando sono succeduto a Guglielmo Pepe che è ancora nostro editorialista e cura il concorso fotografico e la mostra che è a Palazzo delle Esposizioni. Ma gli aneddoti non mancano. Quando sono andato a Washington – per il "sacro giuramento" di fedeltà al rettangolo giallo - mi hanno massacrato con venti riunioni da un'ora o due in una settimana, dalla redazione agli esperti scientifici, dall'ufficio fotografico al gruppo di lavoro che realizza le precisissime mappe. Ma le due visite più spettacolari sono state quelle all'archivio fotografico, un gigantesco ambiente al piano interrato dove sono conservati 11,5 milioni di foto, a temperatura e umidità controllate, e alla stanza di fronte, un magazzino dove tre ingegneri preparano sofisticatissime trappole fotografiche e attrezzature complicatissime per i fotografi in missione. Dopo, ma solo dopo, sei parte della "famiglia".

Oltre a National Geografic Italia dirigi anche un altra rivista, Le Scienze, anch'essa figlia di una straordinaria istituzione come Scientific American. In un certo senso hai a che fare nello stesso momento con un tipo di divulgazione più asettica, approfondita, scientifica in senso stretto, e una nella quale il potere evocativo delle immagini gioca un ruolo chiave, preponderante rispetto al testo e all'analisi. Si possono tenere insieme le due cose? Più precisamente, la scienza è una cosa che suscita ancora curiosità? C'è ancora spazio per una divulgazione scientifica seria, ma che sia al tempo stesso accattivante e - perdona il termine - popolare?

Credo che il successo, anche in questa stagione buia dell'editoria, sia di National Geographic sia di Scientific American – una fondata nel 1888, l'altra nel 1845 – sia la testimonianza che la qualità paga. E sebbene siano due istituzioni molto diverse hanno in comune proprio questo aspetto. Che è quasi una missione: dai loro uffici devono uscire giornali che non ammettono errori, almeno nell'informazione sui fatti, e devono sempre essere confezionati con profondità e attenzione. Penso che ci sia una sola cosa che resta alla carta stampata, per provare a essere competitiva con l'informazione fai-da-te in rete, ed è la credibilità. Insieme all'originalità. Difficilmente in rete troverai quello che trovi su queste riviste, e se lo trovi lì puoi essere abbastanza tranquillo che quelle informazioni sono verificate e certificate. Davanti al gran rumore della pseudoinformazione in rete, che forma opinioni spesso non suffragate dai fatti, credo sia l'unica barriera di difesa del cittadino. E in fondo vagliare l'informazione credibile sarà sempre di più la qualità migliore dei giornalisti del futuro.

Se guardiamo al nostro paese, c'è stata una sequenza di episodi - dalla distruzione delle coltivazioni transgeniche sperimentali all'Università della Tuscia alla condanna dei membri della Commissione Grandi Rischi per il terremoto dell'Aquila, dal caso Stamina agli emendamenti "animalisti" della legge che regola la sperimentazione animale - in cui il rapporto tra comunità scientifica e autorità pubbliche sembra essere entrato seriamente in crisi. Credi che siano stati solo degli episodi o c'è dell'altro?

Non credo si tratti di un fenomeno transitorio oppure occasionale. Mi sembra piuttosto che da parte della politica ci sia un certo modo quasi compiaciuto di rispondere alla pancia dell'opinione pubblica assecondandone gli umori, per riconquistare una fiducia che probabilmente non arriverà. Il guaio è che questa politica dei contentini rischia di compromettere la competitività del paese in settori strategici come le biotecnologie, o la ricerca medica, già messi a dura prova da politiche della ricerca indecorose, a voler essere generosi. Così mi sembra di intravedere un fenomeno che si autoalimenta. Mi spiego. Piccoli – o relativamente piccoli – gruppi che si rifanno a ideologie di una presunta vita in comunione con la natura, che spesso guardano al passato come a un improbabile mondo ideale, quasi bucolico, fanno manifestazioni rumorose e gesti clamorosi che richiamano l'attenzione dei media. Questi, spesso senza nemmeno andare a verificare se si tratti di "buone cause", le abbracciano in quanto cause, l'opinione pubblica si forma su una pessima informazione e la politica asseconda l'opinione pubblica. In un circolo vizioso in cui un gesto clamoroso, mediatico, vale più di un milione di buone ragioni. E così la politica prova a illudere i cittadini di agire in loro nome.

Per quel che vedi dal tuo punto di osservazione, si tratta di un fenomeno solo italiano, o la tendenza da parte della politica di assecondare l'emisfero irrazionale dell'opinione pubblica è un problema che riguarda anche il resto del mondo occidentale?

Che ci siano spinte irrazionali anche in altri paesi occidentali non c'è dubbio, ma mi pare che le cose non vadano in modo così catastrofico. La norma europea sulla sperimentazione animale, per esempio, era stata concordata a livello comunitario con il mondo della ricerca e con le principali associazioni animaliste. Solo da noi una protesta un po' più rumorosa ha ottenuto una legge che è ancora più restrittiva, ma che rischia di mettere in ginocchio non tanto le case farmaceutiche, quanto chi fa davvero ricerca. Diciamo che negli altri paesi mi sembra di poter osservare una maggiore distensione della politica nei confronti di questi gruppi di pressione. Forse da noi assecondare queste esigenze serve a buttare acqua sul fuoco di una situazione generale molto più compromessa che altrove.

 

@lavalledelsiele