Dopo un lungo iter parlamentare, iniziato nel 2008, il ddl n. 362 relativo al riconoscimento delle figure di diversi professionisti dei Beni Culturali, tra i quali gli archeologi, è stato recentemente approvato alla Camera. Un buon risultato per tanti “invisibili”. Anche se c’è ancora molto da fare.

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Nei lavori di arginatura del Tevere eseguiti a Roma tra il 1876 e il 1910, sotto la responsabilità del Ministero dei Lavori Pubblici con la costituzione dell’Ufficio Speciale del Genio Civile per il Tevere, la sorveglianza archeologica attuata dagli uffici nazionali fu scarsissima. Limitata ad una sommaria registrazione dei materiali recuperati nelle diverse operazioni. L’archeologia, neppure rappresentata nelle istituzioni preposte alla realizzazione dell’opera, assente sia nella fase progettuale che in quella esecutiva. Solo nel 1878 si trova menzione di una “Commissione per studiare scientificamente l’alveo del Tevere”, nella quale venne nominato Rodolfo Lanciani.

Lontanissimi quei tempi. Le indagini preventive, a Roma naturalmente, ma anche altrove, sono diventate una fase ineludibile dei lavori. Uno strumento, almeno nelle intenzioni, di salvaguardia delle tracce del popolamento di città e territori. Gli archeologi da quegli inizi incerti hanno guadagnato spazio. Sui grandi cantieri edilizi, come al seguito degli scavi per la posa delle utenze lungo strade e piazze, ci sono. Anzi, ci debbono essere. Anche se finora senza tutele e diritti, nella precarietà più assoluta. Le ragioni, tante.

Una, dalla quale forse si originano le altre, è la mancanza del riconoscimento professionale, che accomuna archeologi e altri specialisti dei Beni Culturali. Una pletora di persone di ogni età che cercano di sopravvivere da un contratto all’altro, da una collaborazione a un cantiere, da una schedatura ad un progetto. Un mondo, secondo le tante definizioni utilizzate nel tempo, di outsider, di “invisibili”. Insomma un coacervo di professionisti operanti in diversi ambiti dei Beni Culturali che hanno deciso di unirsi e di ritrovarsi a Roma, a Piazza del Pantheon, l’11 gennaio di questo anno.

Più di 40 sigle per la prima volta insieme, per iniziativa dell’Associazione Nazionale Archeologi. Una manifestazione congiunta per protestare contro il famoso bando per 550 giovani inserito dal Ministro Bray nel ddl “Valore Cultura”, ma anche per segnalare i disagi ormai insopportabili di tanti umanisti. A colmare questo vulnus normativo provvede, il ddl n. 362 "Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in materia di professioni dei beni culturali", recentemente approvato alla Camera. Una proposta che, dunque, non crea nuove corporazioni, né albi, tanto meno ordini professionali. Ma provvede a riconoscere il loro status a categorie sostanzialmente senza riferimenti, nell’alveo della legge n. 4 del 2013, coinvolgendo le associazioni professionali, esclusivamente per quanto compete al lavoro delle associazioni professionali.

Il cardine del nuovo quadro normativo è l'articolo 1, il quale disporrebbe che gli interventi di tutela, vigilanza, ispezione, protezione, conservazione e fruizione dei beni culturali sono affidati, secondo le rispettive competenze, alla responsabilità o alla diretta attuazione di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, esperti di diagnostica applicata ai beni culturali, storici dell'arte, “in possesso di adeguata formazione e professionalità”, nonché alla responsabilità o alla diretta attuazione degli operatori delle altre professioni già regolamentate.

In attesa della discussione in Senato, un importante passo di partenza. Anche se forse non ancora decisivo, considerando che sembra rimanere tutt’altro che definita quella specifica presente nel testo. Quel “in possesso di adeguata formazione e professionalità”, che dovrebbe assicurare sui requisiti necessari dell’operatore di turno. A questo punto a rimanere senza risposta sembrerebbe il quesito chi sia un archeologo. Più esplicitamente, cosa debba aver fatto un archeologo per potersi definire tale.  Non occasionalmente su questo tema dal febbraio 2012 alcune associazioni di archeologi, la CNAP, la CIA e la FAP, ha avviato con CNA Professioni  un lavoro per giungere ad una definizione normativa della figura dell’archeologo. Così non è improbabile che le due iniziative, da un lato quella per via parlamentare, dall’altro quella attraverso l’associazione che rappresenta e tutela gli interessi delle imprese artigiane, delle PMI e di tutte le forme di lavoro autonomo, alla fine dei rispettivi percorsi s’incontrino, completandosi. Così da offrire  alla schiera quasi infinita di archeologi “formati” gli strumenti per trovare nell’asfittico mondo del lavoro, risposte più dignitose alle proprie richieste.

Anche per quel che riguarda i compensi. Trovato forse un paracadute per almeno una parte di professionisti della trowl, sarebbe tuttavia importante che il Governo tentasse di ragionare su una delle tante emergenze nazionali. Occupazionale nello status quo, ma in prospettiva di Politiche culturali. L’assottigliarsi degli interventi edilizi verificatisi negli ultimi anni ha ulteriormente soffocato un settore che in diversi casi ne aveva, seppur indirettamente beneficiato attraverso le indagini preventive. Così anche le cooperative sorte in precedenza per fornire servizi diversificati sia ai privati, che, soprattutto, alle Pubbliche amministrazioni, sono state costrette in diversi casi a diminuire il numero dei collaboratori. Mentre tutti gli altri, costretti dalle necessità, hanno cercato, quando possibile, di riciclarsi in altri ambiti lavorativi. Che da tempo non sono più nell’insegnamento, considerato il sostanziale fermo nei concorsi e la quantità di precari.

Ma intanto, mentre quelli che già sono archeologi si riuniscono a manifestare le loro difficoltà in qualche piazza d’Italia, ce ne sono altri centinaia che ogni anno, dopo essersi laureati nelle diverse Università del Paese, iniziano il loro percorso professionale. Da uno scavo all’altro. Quando possibile. Così, proseguendo con queste modalità, il numero degli archeologi quasi sempre senza occupazione, in un settore che non sembra offrirà maggiori opportunità nel prossimo futuro,  è destinato ad aumentare a dismisura. Insomma si ha davvero la sensazione di essere ormai giunti ad una situazione tanto grave da richiedere interventi straordinari.

Come potrebbe essere quello di stabilire una sorta di numero chiuso per l’ingresso agli specifici corsi di Laurea. Un provvedimento  temporaneo che possa consentire non soltanto al mercato del lavoro nel suo complesso di uscire dall’impasse attuale, ma anche ai Ministri competenti, in accordo con il Governo, di pianificare strategie politiche in grado di riattivare un settore da troppo tempo in emergenza. Non servirà richiamare la ricchezza del patrimonio culturale italiano, il nostro “petrolio” secondo un’abusata e impropria definizione. Né potrà essere di una qualche utilità ripetere il vuoto refrain sulla necessità di investire in Cultura. Non è più tempo di interventi particolari. Soltanto una radicale riorganizzazione di Beni Culturali e, non disgiunta da questa, dell’Università, potrà rigenerare  un settore agonizzante. Con esso, gli altri, non meno in difficoltà.

Mentre quasi solo nuovi crolli continuano a richiamare l’attenzione su Pompei, gli allagamenti sul parco di Sibari, il degrado e l’abbandono, di tanto in tanto, sui singoli monumenti e le aree disseminate per l’Italia, la gran parte dei nipoti di Lanciani cerca di sopravvivere con una media stimata di circa 10mila euro lordi l’anno.