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Quando scende in campo Daniele De Rossi, scende in campo la città di Roma. Potrebbe sembrare un complimento, ma non lo è. Piuttosto, è una semplice constatazione, utile a comprendere il modo in cui la Capitale vive il suo rapporto con il calcio.

Un’intera città - laziali a parte, che pure non si relazionano in modo più sano con i propri beniamini - si identifica nelle gesta del capitano giallorosso, perché in lui può specchiare e scorgere tutti i propri tratti distintivi. L’irascibilità, la supponenza, l’irrazionalità di una cittadinanza intera hanno forgiato la condotta del De Rossi calciatore e professionista, che a sua volta viene eretto a status di condottiero dai propri concittadini.

La presunzione di essere migliori per nascita, per stirpe, per sangue e diritto divino che accomuna molti romani è la ragione per cui Daniele De Rossi è stato elevato a rango di eroe popolare intoccabile, di figlio prediletto della Lupa, della Capitale dell’Impero. Peccato che quell’Impero, onnipresente nella simbologia e nella narrazione che Roma e i romanisti fanno di sé, sia scomparso e abbia lasciato un’eredità, in fatto di costumi e tradizioni, ben più forte nei popoli germanici che nella Roma odierna, che ne conserva soltanto il folklore. Oggi, al contrario, regnano il settarismo, l’odio sprezzante e il senso di superiorità ingiustificata nei confronti di tutte le altre comunità e tifoserie.

Capita, quindi, che in una domenica di campionato a Genova, con la Roma in vantaggio per 1-0 sui padroni di casa e tre punti pesanti in palio, Daniele De Rossi colpisca con una manata in pieno volto, per giunta nella propria area di rigore, Gianluca Lapadula, attaccante rossoblu. Espulsione per De Rossi, rigore per i liguri e partita che termina 1-1, compromettendo il terzo posto in solitaria della Roma.

Capita. Ma non capita soltanto in una domenica di campionato. Capita in molti altri incontri di serie A, tra cui diversi derby. Capita in Champions League. Capita ai Mondiali di Germania 2006, di cui De Rossi è considerato uno degli eroi da tifosi con la memoria troppo corta per ricordare la squalifica di quattro giornate ai danni del centrocampista di Ostia per una gomitata allo statunitense McBride. Capita complessivamente quindici volte in carriera. Tante, troppe. Eppure, nessuno di questi episodi è costato mai granché al capitano giallorosso, né in termini di carriera, né in quanto ad affetto e stima incondizionati da parte dei tifosi.

Perché Mamma Roma, che guarda tutti gli estranei dall’alto verso il basso, che li insulta senza rendersi conto di essere diventata lei stessa la meretrice d’Europa, ai propri figli prediletti - quelli nati col sangue e la fede calcistica giusti - perdona tutto. Magari, se fosse meno disposta a perdonare, farebbe il bene dei propri eredi. Ogni genitore vorrebbe che i propri figli diventassero persone migliori di chi li ha messi al mondo, ma Mamma Roma è diversa: li trascina con sé verso il basso, verso la mediocrità e il malcostume che affliggono questa città.

Quella dello sport è una storia fatta di riscatti, di uomini e donne che, se non avessero scoperto di essere dotati di un talento, avrebbero condotto una vita misera, probabilmente cacciandosi anche nei guai. La storia dello sport a Roma, al contrario, è una storia di talenti sprecati, di campioni affossati da una città che li vuole e li pretende a sua immagine e somiglianza. È così, ad esempio, che Paolo Di Canio, emblema del fair play e dello stile british in Premier League, si sente autorizzato a trasformarsi nell’idolo fascista della Curva Nord quando torna a Roma per giocare nella sua Lazio.

Se il volto di Roma è quello di una metropoli sporca, insicura, arida ( anche in senso letterale, con l’emergenza idrica che va avanti dall’estate), corrotta, dove i regolamenti di conti tra clan rivali sono all’ordine del giorno, non deve destare meraviglia che gli idoli sportivi della città siano calciatori che non riescono a mantenere l’autocontrollo in campo, che alzano le mani contro gli avversari per ragioni che sfuggono alla comprensione umana e alla logica del calcio.

Daniele De Rossi dovrà certamente fare i conti con il giudice sportivo, che, sicuramente, gli infliggerà alcune giornate di squalifica, ma siamo pronti a credere che nessuno, a Trigoria, lo costringerà a pagare sportivamente per la sua ennesima follia, che é costata alla squadra due punti in classifica. Certo, potrebbe arrivare una sanzione economica da parte della società, ma scontata la squalifica per condotta violenta, De Rossi tornerà in campo con la fascia da capitano al braccio.

Titolare inamovibile. Come se nulla fosse mai accaduto; né questa, né le altre volte. Con il rinnovato amore di Mamma Roma.