Della Vedova rotaie

Ottant’anni fa in Francia, a Bagnoles-de-l'Orne, vennero ammazzati da un’organizzazione di estrema destra, su mandato di Galeazzo Ciano, Carlo e Nello Rosselli.

Fu Carlo a pubblicare nel 1930, durante l’esilio francese, il suo Socialismo Liberale, scritto nel ’29 all'epoca del confino a Lipari. Ucciso dai fascisti, Carlo Rosselli non può essere rappresentato solo come una vittima e acerrimo nemico del fascismo e della sua opzione totalitaria - che combatté con la forza e l’audacia di un attivista indomito - ma occorre riconoscerlo e riscoprirlo anche come fine revisionista e critico del socialismo marxista.

A questo tema, infatti, è dedicato il saggio Socialismo Liberale e non al fascismo che lo tenne prigioniero a Lipari. Perché? Perché in quella peculiare cattività, perseguitato dal regime di Mussolini, il pensiero libero di Rosselli partorì una critica radicale al socialismo marxista? Perché Rosselli, ed emerge in più punti del saggio, ritenne che l’ideologia marxista, la sua teologia politica deterministica, scientifica, atea ma non laica, nemica delle libertà individuali quanto del movimento spirituale di edificazione personale, contribuì involontariamente al trionfo italiano del fascismo.

Come mai - si domanda Rosselli - i socialisti italiani negli primi anni ’20, senz’altro più numerosi dei fascisti, non riuscirono a governare i fenomeni rivoluzionari in corso, non riuscirono ad intercettare le inquietudini giovanili e nuove? La colpa, secondo il pensatore ebreo-toscano, è della filosofia marxista e di quello scientismo positivista che la anima e che fonda – contro storia e realtà – la fiducia incrollabile, eretta sui sacri testi, secondo la quale i vinti di oggi saranno necessariamente i vincitori di domani e la lotta di liberazione dei lavoratori non passa per il volontarismo e l’idealismo etico ma solo per le necessitate dinamiche strutturali del capitalismo che porteranno - una volta esplose tutte le contraddizioni impoverenti e schiavizzanti - alla vittoria del proletariato e della sua dittatura.

Visto così, l’impegno individuale spontaneo e moralmente indirizzato è senz’altro secondario rispetto all’analisi economicistica che diviene destino e ciò perché il dato sovrastrutturale, culturale, nazionale, ideale, è solo un riflesso condizionato dello sviluppo capitalistico. Ed è per questo che per i marxisti italiani il fascismo fu solo una parentesi necessaria sul cammino certo della libertà socialista.

A tutta questa algida quanto paralizzante analisi, Rosselli oppone il gradualismo fattivo di Bernstein, il revisionismo di Croce, ma anche la liberal democrazia di Salvemini e di tutti coloro che lottavano allora per un socialismo sganciato dal marxismo, per un socialismo tutto improntato sulle esigenze del lavoro, del contratto, sulle rivendicazioni di giustizia e libertà di un movimento operaio e sindacale – fortemente potenziato, è vero, dall’ideologia di Marx – ma che nella prassi, sin da subito, seppe agire per la propria liberazione attraverso la lotta per l’acquisizione di quei diritti sociali e civili, di quelle libertà borghesi viste come conquiste per tutti e non come privilegi per pochi da travolgere nella trasvalutazione dei valori rivoluzionari. 

Vale per Carlo Rosselli il più volte richiamato motto di Bernstein: "il moto sociale è tutto, il fine è nulla!"

È il motto dei riformisti che pongono l’accento sulla mobilità sociale, sul progresso di una società aperta e libera il cui movimento non sclerotizzato rappresenta progresso e futuro e dinanzi al quale il fine ortodosso della socializzazione dei mezzi di produzione o dell’internazionalizzazione della lotta rivoluzionaria globale diventano solo astrattezze teologiche che, appunto, non hanno nessun senso per i lavoratori, gli artigiani, le imprese di un’economia mista chiamate a generare, nel mercato libero ed equo da costruire, lavoro e diritti.

Al Marx hegeliano, Rosselli contrappone, quindi, un normativismo di matrice etica e kantiana che non nasconde la cesura tragica tra essere e dover essere e che proprio per questo mobilita le volontà verso il riscatto, la lotta politica ed il risultato possibile e non utopico sempre aperto, comunque, sul baratro della sconfitta, del passo indietro. Contro tale visione eretica – da molti marxisti considerata spregiativamente come “giuridica” – si muove un rivoluzionarismo mono direzionale che vede nei moti dello spirito solo degli orpelli secondari sulla strada già tracciata della liberazione collettiva: una liberazione però – ci dice Rosselli – che se non è davvero sostenuta da una rivoluzione morale ed etica – di quel popolo italico piegato da secoli di servaggio e di abitudine al potere paternalistico - rischia di non produrre frutti concreti, oscillando paradossalmente tra una retorica massimalista quanto vacua e l’estremo traccheggio parlamentare dedito anche, sotto traccia, al compromesso di bassa lega.

Questa era propriamente l’esperienza di Rosselli alle prese con l’analisi dei primi approcci al potere da parte dei socialisti ormai entrati nelle istituzioni democratiche. E qui Rosselli, riprendendo il Croce revisionista del socialismo, è chiaro: solo una forte matrice ideale, solo l’attitudine all’esame di coscienza può consentire l’inosabile, la sostituzione della filosofia marxista e dei suoi dogmi come filosofia prima del movimento socialista. E per sostituirla con che cosa?

E qui l’analisi di Rosselli ci aiuta a comprendere il secondo polo del termine ossimorico socialismo liberale: non c’è una unica nuova filosofia della storia sostitutiva ed escludente, non c’è un nuovo fine feticcio sul cui altare santificare e sacrificare ogni azione, ogni movimento operativo, ogni patto davvero progredente e di risultato utile; esiste la pluralità d’approcci e visioni motivata da un processo migliorista nemico dello stallo, dello status quo dei privilegi.

Il socialismo quale erede naturale del liberalismo, quale liberalismo delle masse in marcia per progredire dallo stato di miseria e di minorazione politica, non ha fini ultimi che non siano quelli della creazione e custodia di una società in cammino verso diritti e libertà per tutti. Su tale strada il metodo liberale, al contrario dell’impostazione socialista classica, non viene considerato come un utile strumento per la conquista legale del Potere che potrà ben essere messo da parte, come ogni idealità e operatività di minoranza, per l’istituzione della dittatura. Il metodo liberale, invece, è inteso come imprescindibile viatico di libertà che, attraverso la competizione democratica e la salvaguardia dei dissenzienti, potrà davvero realizzare l’obiettivo primo del socialismo, la libertà appunto.

Ed allora, l’esaltazione del socialismo non marxista inglese, la rivendicazione pragmatica del principio di revocabilità delle scelte, la concreta rappresentazione delle dinamiche positive di una economia complessa in cui convivono plurime e diverse esperienze: quelle artigianali, quelle cooperative, quelle capitaliste e di profitto, quelle di Stato, consentono al Rosselli degli anni ’30 - ma davvero nostro contemporaneo - di fornire, di fornirci uno strumento attualissimo di affrancamento deciso da formule teologistiche di lotta politica, rappresentanti soluzioni tanto semplici quanto astratte, le quali – penso soprattutto oggi al qualunquismo demagogico e populista - non concepiscono eresie, critiche, revisioni, punti deboli nel cammino verso la conquista del potere.

In fondo, la lettura – oggi - di Socialismo Liberale, è importantissima per la sinistra europea ed italiana, per superare nella rivisitazione critica dei propri assunti l’eterno conflitto tra puristi ed eterodossi, per uscire definitivamente – e sarebbe ora! – dalla assurda pretesa d’autenticità a fronte dell’accusa di tradimento rivolta verso il pensiero critico e pragmatico, per sostenere tutti quegli autentici riformisti – penso a Macròn – miopicamente combattuti come usurpatori e violentatori di una ideologia che si assume fissa, di una comunità di base che si interpreta come dotata di peculiari caratteristiche di classe che non ammettono – pena la deviazione – la messa in discussione delle proprie acquisizioni dogmatiche a fronte dell’ostinata forza della contingenza, del reale en marche, appunto.