cyberbullismo

'Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza dire nulla' – Albert Einstein.

Nell’era del cyberbullismo e dell’hate speech, tutta l’attenzione è focalizzata sui leoni da tastiera e pochi si concentrano sull’aria omertosa e connivente che tira. Molti avranno sorriso (giustamente) guardando il video in cui, di recente, Riccardo Scamarcio ha deciso di prendersela con il pubblico rimproverandogli il suo protagonismo. Eppure, forse, vi è un concetto molto giusto nel siparietto che l’attore ci ha regalato.

Per capire il legame (apparentemente inesistente) tra l’ “affaire Scamarcio” e i leoni da tastiera, bisogna fare un passo indietro e partire dal bullismo. Il bullismo “tradizionale” è un fenomeno che risale alla notte dei tempi: le parti contrapposte sono quella della vittima e del bullo, quest’ultimo spesso coadiuvato da alcuni complici che gli danno man forte. Tutti “gli altri” che assistono alle prepotenze sono mediamente pochi e lo fanno perché si trovano dove la vicenda accade: nella scuola, in un parco, per la strada, in un locale, cioè posti accessibili o frequentati da un numero definito di soggetti. La prepotenza avviene “qui e ora” e le persone coinvolte, a prescindere dal ruolo di bullo, complice, spettatore o vittima, hanno un volto e un nome, sono presenti in carne e ossa.

E allora perché, se il bullismo è sempre esistito, proprio adesso se ne parla in continuazione? È colpa della rete, è colpa del cyber – questo è ciò che sostengono i più.

Innanzitutto, che si sfati un mito: Internet non è un demone e neanche i social network lo sono. Bisogna evitare la personificazione degli strumenti, e attribuire all’essere umano che li usa la responsabilità degli effetti generati dal cattivo utilizzo. Le cose, gli oggetti, la rete, non sono pericolosi in sé: lo possono diventare se vengono adoperati per far male a qualcuno o, peggio, senza accorgersi del loro potenziale dannoso.

In secondo luogo, alla luce di quanto sopra, è essenziale la consapevolezza delle proprie responsabilità (anche solo potenziali), che chiaramente va costruita attraverso la formazione. Ma lasciamo da parte, per una volta, il giudizio sulla qualità dell’insegnamento e le considerazioni su chi debba fare cosa e come. Riflettiamo, piuttosto, sul fatto che, mediante la rete, volenti o nolenti molti hanno mostrato circostanze e fenomeni prima per lo più taciuti o sconosciuti e che adesso, invece, hanno un pubblico potenzialmente indeterminato, che gode di libero accesso e di replicabilità dei contenuti. Così il “qui e ora” è stato sostituito dal “sempre e ovunque”.

Si faccia attenzione, perciò, quando si afferma che il bullismo è esploso con Internet, poiché in realtà ad essere esplosa è la conoscibilità del tema. La rete, per sua natura, effettivamente amplifica la visibilità del bullo e delle sue azioni, fungendo da cassa di risonanza per le prepotenze esercitate spesso anche nella vita offline, trasformando il bullismo in cyberbullismo. Tuttavia, essa non ha diffuso il bullismo, ma ci ha chiamati a osservarlo da vicino, giacché questo si può manifestare sotto gli occhi di decine, centinaia, persino migliaia di utenti.

Non serve più essere “qui e ora”, perché le cyber-prepotenze sono infinitamente riproducibili e costantemente accessibili. La scuola, un parco, la strada, un locale, vengono proiettati direttamente a casa nostra e così si finisce per assistere ad atti di bullismo anche contro coloro che non si conoscono o che si conoscono poco. Su Internet “gli altri” del bullismo “tradizionale” sono potenzialmente infiniti: tutti possiamo essere cyber-spettatori. E sono proprio gli spettatori, per una volta, a dover essere chiamati in causa.

Qualche decennio fa un certo Martin Luther King diceva: “In questa generazione ci pentiremo non solo per le parole e per le azioni delle persone cattive, ma per lo spaventoso silenzio delle persone buone”. È una frase davvero attuale e permette di spostare l’attenzione dalla dicotomia cyberbullo-vittima alla gigantesca monade chiamata “pubblico silenzioso”.

Sul web si può leggere, guardare e conoscere praticamente ogni cosa o persona, ma tutto finisce per sembrare altro da noi. È un po’ il paradosso di questo secolo, quello di essere tutti così lontanamente vicini, partecipando a tutto senza poi intervenire, riconoscendoci tutti senza conoscerci mai. Questo controsenso colpisce tanti adulti, ma soprattutto i giovanissimi, che sono nati e cresciuti immersi nella tecnologia. Insegniamo ai bambini a non-fare cose cattive (anche in rete), ma ci possiamo dire deresponsabilizzati se online “vediamo” vicende che non ci coinvolgono direttamente o che non riguardano qualcuno che conosciamo offline?

Durante i primi due mesi di attività del Centro Nazionale Anti-Cyberbullismo, è emerso con forza un dato, e cioè che i genitori sono sempre gli ultimi a sapere le cose: prima di loro ci sono gli insegnanti, qualche volta i fratelli, i nonni o i cugini, ma ad essere immediatamente a conoscenza del fatto è la comunità online della vittima, che raramente osa intervenire per arginare i comportamenti del cyberbullo.

Segnalare, denunciare alle famiglie o alla scuola, bloccare il bullo, sostenere la vittima, sono tutte cose che vengono escluse perché i giovani non hanno la percezione di ciò che genera l’assenza di opposizione online. Non vedono le tumefazioni sul volto o le espressioni afflitte della vittima e quindi pensano che non sia necessario intervenire, perché “tanto è un gioco” e “tanto non sta succedendo nella vita reale”. Ma non è un gioco, e reale e virtuale ormai coincidono. La vittima lo sa bene. Si crea allora un circolo vizioso. Il pubblico osserva silenzioso e finisce per comportarsi in maniera omertosa alimentando l’idea del cyberbullo di essere invincibile. Il cyberbullo, a sua volta, persevera perché sa di avere dei cyber-spettatori e, proprio perché costoro sono silenziosi, li considera conniventi.

Per questa ragione, l’invito per una volta vuole essere quello di osservare un’altra faccia della cyber-medaglia. Il cyberbullo pubblica in rete le sue vessazioni e così facendo amplifica l’eco dei suoi gesti: è vero, ma ciò rende anche visibili fenomeni prima nascosti o impercettibili. La virtualità alimenta l’ardire del prepotente che sa sempre di essere “seguito” da qualcuno: è vero anche questo, ma i cyber-spettatori possono usare a vantaggio della vittima le peculiarità del web (ad esempio facendo degli screenshot da mostrare agli adulti o riproducendo i contenuti dannosi di fronte a loro).

L’anonimato fa sentire invincibili i cyberbulli: siamo d’accordo, ma ricordiamo che il pubblico che osserva quanto accade potrebbe ben intervenire, senza neanche prendere un pugno in faccia (ad esempio con le segnalazioni, che sono anonime). Dunque, tornando a Scamarcio e al fatto che “il pubblico” è al centro di tutto, l’attore non sa che attaccandolo in realtà ha colto una delle principali sfumature del mondo del web, perché in rete sono proprio gli spettatori ad avere un ruolo fondamentale. Questi possono fare la differenza segnalando, denunciando e aiutando le vittime che nella maggior parte dei casi non hanno la forza di parlare di quanto avviene.

Perciò, nonostante molti lo considerino il covo degli irresponsabili, è proprio il web che fornisce a ogni singolo utente la possibilità di responsabilizzarsi e di fare qualcosa per gli altri. Il fatto stesso di avere accesso a ciò che succede, di poterlo mostrare a un genitore, a un insegnante o a chiunque possa intervenire, segnalando l’accaduto, aiuta la vittima a liberarsi del suo aggressore.

Oltre ai doveri e ai divieti, allora, ci si dovrebbe soffermare anche sui poteri che il web ci conferisce, poteri da cui derivano delle responsabilità e che possono essere utilizzati per far valere i diritti di chi non riesce a farcela da solo, nella celebre logica del “Tutti per uno, uno per tutti”.