Colonna gennaio chiocciola

Di teorie della decrescita, si sa, ce ne sono tante. La più nota è forse la decrescita “alla francese” di Serge Latouche. Ma ne esiste anche una all’italiana, la “decrescita felice” inventata da Maurizio Pallante. Un paio di mesi fa quest’ultimo, assieme a Alessandro Pertosa, ha scritto un nuovo libro: Solo una decrescita felice (selettiva e governata) può salvarci, Lindau, 2016, p. 189, Euro 16,50.

Il titolo e la quarta di copertina (dove i due autori si definiscono modestamente “eretico” l’uno e “pensatore eterodosso” l’altro) non ingannino: si tratta di un testo polemico, teso a rimarcare le differenze con le teorie rivali e a rivendicare i meriti della propria. Peraltro, vista la vicinanza con i precedenti libri di Pallante, il contributo del coautore dovrà individuarsi negli inserti “filosofici”, come questo: “lo slogan è uno strumento linguistico feroce, che abita la scissione ontologica, se ne nutre, e cibandosene approfondisce il solco che separa il singolo dal contesto in cui si trova”. Che, come si vede, appartiene al genere letterario di cui era specialista il Conte Mascetti nell’indimenticato film di Monicelli.

È evidente la polemica con Latouche, dal quale Pallante ci tiene a distanziarsi. Soprattutto il Nostro sembra offeso per il fatto che il francese accusi la teoria italiana di essere tale da “tradursi immediatamente in iniziative concrete”: per dimostrarsi immune a questa critica devastante, Pallante si affanna a spiegare che la sua teoria è solo una “opzione libertaria”, che “non prefigura un modello di società alternativa (…) ma si qualifica come un orizzonte valoriale verso cui dirigersi, ognuno secondo le proprie capacità e sensibilità”; non è un “modello applicabile allo stesso modo in ogni situazione”, bensì “una strada rivoluzionaria non violenta, che ognuno deve percorrere se intende sottrarsi al dominio ideologico esercitato dal capitalismo e dalla società della tecnica”, “una pratica innanzitutto esistenziale”, “una rivoluzione dolce che erode i fondamenti dell’economia di mercato”.

Insomma, proprio come la teoria di Latouche (che Pallante scimmiotta anche con i suoi elenchi di precursori, tra cui spicca Ivan Illich), quella del Nostro è una mera ideologia, dove gli ostacoli reali sono magicamente ignorati e la botte piena convive allegramente con la moglie ubriaca, disdegnando ogni indicazione concreta: come se poi il “dominio ideologico” del capitalismo si potesse “erodere” lasciandone immutata la struttura economica.

Il nucleo della decrescita all’italiana sta nella distinzione (inventata proprio da Pallante) tra merci e beni. I beni sarebbero le cose che soddisfano bisogni; ma i beni possono sia circolare in cambio di denaro (nel qual caso sono anche merci) sia essere autoconsumati o donati. Le merci, a loro volta, sarebbero ciò che viene scambiato con denaro, e possono sia soddisfare bisogni (nel qual caso, oltre ad essere merci, sono anche beni), sia non soddisfarne nessuno – nel qual caso sono merci, ma non sono beni. La teoria perciò prevede che si debba aumentare l’autoproduzione dei beni e ridurre la produzione di alcune merci: non, beninteso, di tutte le merci (perché alcuni beni, per i quali si richiedono specializzazioni e capitali, non possono essere prodotti altro che industrialmente). Quindi, non povertà né ascetismo, e nemmeno riduzione dei consumi, ma riduzione del mercato, almeno quando i beni possono essere autoprodotti.

Notate che il libro di Pallante e Pertosa si vende, non è autoprodotto o regalato, anche se la tecnologia oggi permetterebbe eccome di distribuirlo gratis. Ma questo, voi potreste obiettare, non è un argomento decisivo: e avreste ragione, perché razzolar male non vuol dire che non si predichi bene. L’incoerenza di Pallante è un peccato veniale; il vero problema della sua teoria è che è proprio sbagliata. A parte il fatto che le merci si possono scambiare anche con altre merci, anziché col denaro (basti pensare al baratto), il punto decisivo è che non esistono merci che non siano beni, cioè che non soddisfino alcun bisogno: come riconosceva persino Marx, ciò che ha un valore di scambio deve avere anche un valore d’uso, perché, se una cosa non serve a niente, nessuno la produrrà.

Quindi Pallante, per difendere la sua teoria, dovrebbe dimostrare che esistono delle merci che non servono assolutamente a nulla. Ma l’unico esempio di merce inutile che il Nostro riesca a evocare sono gli sprechi: il cibo che finisce nella pattumiera, l’energia che viene dissipata inutilmente. Basta poco per accorgersi che le cose non stanno così: l’utilità consiste nell’idoneità di un bene a soddisfare bisogni, non nel suo effettivo impiego a tale scopo. Anche perché, altrimenti, nessuno potrebbe determinare in anticipo se una cosa sia utile o inutile, e la distinzione finirebbe col dipendere solo dal caso. Se di due mele uguali una la mangio e l’altra finisce nel cassonetto, nessuno potrebbe dire a priori quale mela è utile e quale no; lo si potrebbe stabilire solo dopo l’effettivo consumo. Difficile che una distinzione del genere possa mai servire a qualcosa.

Ma supponiamo comunque, per amore di ragionamento, che la distinzione sia corretta: in tal caso, la ricetta di Pallante equivale a auspicare la riduzione o l’eliminazione degli sprechi. Non pare, onestamente, che questa sia una scoperta rivoluzionaria, né che la sua attuazione sia incompatibile con l’economia attuale.

I problemi della “decrescita felice” derivano da una causa fondamentale: che i suoi autori – che in ciò si trovano, va detto, in ottima compagnia – non hanno capito il vero significato del reddito. Il reddito, così com’è indicato dal PIL, non è il denaro (che è solo una misura), ma è la produzione. Se gran parte del nostro prodotto non venisse comprata o venduta, ma venisse autoconsumata o donata, per poterla misurare (in assenza di scambi monetari) dovremmo procedere a una stima, come del resto già accade oggi per valutare l’apporto al PIL di certe parti importanti del prodotto nazionale (come le case di proprietà o i servizi pubblici): ma non per questo il reddito si ridurrebbe.

Ma allora non si capisce quale sarebbe il beneficio apportato dalla riduzione degli scambi commerciali, auspicata da Pallante. Lo spreco di risorse e l’accumulo di rifiuti non dipendono dalla destinazione di un bene al mercato o all’autoconsumo, ma dalle tecniche produttive, dallo stato delle infrastrutture e dalle modalità di conservazione dei prodotti: e su tutte queste cose l’andamento del reddito non è in grado di dirci nulla.

Una rivoluzione non si può fare su premesse teoriche sbagliate, né una teoria sbagliata potrà aiutarci a capire la realtà. E infatti, i due autori prendono una quantità impressionante di abbagli. Solo pochi esempi tra i tanti possibili: sono convinti che la riduzione degli sprechi determini una riduzione del PIL; che il PIL aumenti grazie agli ingorghi e agli incidenti stradali, alle guerre e alle malattie; che “la gente felice non consuma”, e così via – tutte fallacie ben note, che la lettura di un qualunque manuale di economia, o almeno di un libriccino non esattamente recente (parlo di Ciò che si vede e ciò che non si vede, pubblicato da Bastiat nel 1850), gli avrebbe fatto evitare.

E che dire della loro “ricostruzione storica” dell’economia mondiale? Pallante e Pertosa attribuiscono la globalizzazione alle mene delle grandi imprese e delle istituzioni sovranazionali; i politici responsabili sono additati con nome e cognome (Trichet, Hollande, Blair, Renzi); il più insignificante atto politico viene letto in chiave complottistica, nei termini del cui prodest più grottesco. Il TTIP sarebbe stato concluso a seguito di “trattative segrete”; l’abolizione delle Province in Italia servirebbe solo a scippare i cittadini del diritto di voto; la riforma costituzionale di Renzi è stata integralmente dettata da J.P.Morgan; persino le migrazioni sarebbero volute e pianificate dall’élite mondiale...

Per concludere. La decrescita all’italiana è una ben povera cosa, ma non va dimenticato che esistono delle ragioni serie, anche se non necessariamente condivisibili, per auspicare il passaggio da un’economia della produzione individuale di merci ad una economia della produzione collettiva di beni. Ma qualsiasi discussione di questo genere presuppone in ogni caso il riconoscimento preliminare di quanto il nostro mondo sia stato plasmato, nel male ma anche nel bene (e quanto ce n’è!), dalla forma-merce e dal mercato; insomma, presuppone che si passi dalla futile considerazione dello stile di vita individuale, con le sue più o meno puerili idiosincrasie (No agli sprechi! Sì al chilometro zero! No agli Ogm! No alla plastica! Sì allo yogurt fatto in casa!), al progetto di una vita collettiva, partendo dal suo strato fondamentale (che è poi proprio quello che i decrescenti sistematicamente ignorano), cioè dalla produzione.

È un lavoro faticoso, lento, oscuro, che non consente scorciatoie, che non porta alla ribalta delle TV o dei giornali, che rifugge dalle pose da salvatori del mondo così frequenti in Pallante e nei suoi seguaci: ma è anche l’unico modo serio per provare a passare davvero da un’economia delle merci a un’economia dei beni. Il resto – come la decrescita “felice”, ahimè soltanto tra virgolette – è solo una perdita di tempo.