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Carlos Eire è professore di storia e di studi religiosi a Yale. Nato a Cuba nel 1950, all'età di 11 anni fu separato dai suoi genitori e mandato in esilio negli Stati Uniti, insieme ad altri 14.000 bambini cubani, nell'ambito della cosiddetta "Operazione Peter Pan". Quasi cinquant'anni dopo raccontò la sua esperienza, dalla prima infanzia all'inizio della sua nuova vita da solo negli Stati Uniti in un libro intitolato "Aspettando la neve all'Avana" (Piemme, 2008). Le righe che seguono sono il racconto della separazione, all'aeroporto dell'Avana, descritta nel libro come una sorta di trasfigurazione che presto o tardi, scriveva Eire, dovrà affrontare anche Fidel Castro.

 

Un terrore indescrivibile si impadroniva completamente di me, mi soffocava fino a togliermi il respiro. Ora so che era la paura della morte. Sotto molti aspetti stavo per morire, e lo sapevo, almeno di notte. Maria Antonietta aveva deciso di farci uscire da Cuba il prima possibile. Mio padre non era d’accordo, ma in qualche modo era stato convinto ad accettare il suo piano. Saremmo andati negli Stati Uniti da soli.

Era l’unico sistema rapido per farci uscire. I minori non avevano bisogno del nulla osta delle autorità di sicurezza ed erano esenti dal visto. I genitori dovevano attendere molti mesi per un visto, anche oltre un anno.

Migliaia di famiglie stavano facendo lo stesso. Quando Fidel e John Kennedy misero fine a questa pratica nell’ottobre del 1962, quattordicimila bambini erano già stati mandati negli Stati Uniti da soli. Non era un’idea peregrina, quindi. Ma naturalmente, quando un intero mondo crolla, tutto è talmente strano che niente diventa strano. Così due bimbi viziati che non hanno mai passato una notte fuori casa possono essere mandati a vivere in un altro paese, dove non conoscono anima viva.

Io avevo dieci anni, ma avevo appena imparato ad allacciarmi le scarpe, e non mi ero mai tagliato la carne o imburrato un toast da solo. Non avevo mai alzato un dito per fare qualcosa in casa. Nessun dovere. Nessuna responsabilità. Nessuna idea di come si facesse a sopravvivere.

Tutti i miei amici erano nella stessa situazione, e tutti furono messi su un aereo. Niños bigontos, ci chiamava Fidel. Una manica di ragazzini viziati. Si divertiva a prenderci in giro nei suoi discorsi. Manuel e Rafael, Eugenio, Gerardito, il mio nuovo amico Ciro e le sue sorelle, l’altro mio nuovo amico Daniel, Jorge e Julio. Tutti, senza eccezione, niños bigontos in partenza per gli Stati Uniti, per imparare alla scuola dei duri.

(…)

Tornai a casa, mi tolsi i pattini e mi preparai per il viaggio. Tony e io indossammo giacca, camicia e cravatta perché era l’unico modo di portarle fuori dal paese. Era stata Maria Antonietta a prepararmi la valigia, naturalmente. Io non ne ero capace.

Eppure stavo per andare a vivere da solo.

(…)

L’aeroporto fu una vera tortura. A tutta evidenza la Rivoluzione riteneva che chi partiva per gli Stati uniti dovesse stare a distanza di sicurezza da chi rimaneva, nel timore che dopo l’ispezione e la perquisizione si facesse consegnare di nascosto qualcosa da loro. Quindi le autorità costruirono una barriera di vetro attorno al settore partenze.

La chiamavano la pecera, “l’acquario”.

Bisognava entrare presto nell’acquario: tre o quattro ore prima della partenza. Dovevano perquisirci minuziosamente e verificare con cura tutti i nostri documenti, e ci voleva del tempo.

Ci stringemmo tutti fuori dall’acquario per un po’, con altre famiglie ansiose. Alcuni stavano per partire insieme, genitori e figli. Li invidiai. Poi c’erano bambini che avrebbero viaggiato da soli come noi, altri Bambini Perduti di Peter Pan. Strano, non provavo una particolare solidarietà per loro. Proprio per niente.

A quel che ricordo, nessuno piangeva. Nessuno. Tutti cercavamo di essere coraggiosi.

Per noi non era una situazione completamente nuova. Tony e io avevamo fatto una specie di prova generale quando avevamo accompagnato Manuel e Rafael all’aeroporto, qualche mese prima. Avevavmo scherzato fino all’ultimo istante. Ricordo che vidi un manifesto pubblicitario di Chicago e dissi a Rafa: “credi che gli americani sappiano cosa significa cago in spagnolo?”

“Deve essere buffo vivere laggiù.”

“Già, chissà com’è quel posto. “

Rafa e io ci scherzammo sopra ventotto anni dopo in cima allo Space Needle di Seattle, affacciato sul blu scuro dell’Oceano Pacifico privo di pesci pappagallo. Parlavamo in inglese naturalmente. Nessuno dei due si sentiva a proprio agio con la madrelingua.

Tony e io non avevamo amici con i quali scherzare quel giorno. Ma scherzammo fra noi il più possibile. Il manifesto di Chicago era ancora lì, e lo sfruttammo al massimo.

(…)

Naturalmente, nessuno all’aeroporto aveva la minima idea di quanto sarebbe durato quell’esilio per ciascuno di noi. Poteva durare giorni, mesi, anni. Impossibile dirlo. Ma scommetto che nessuno di quelli che quel giorno erano raccolti intorno all’acquario avrebbe mai immaginato che il nostro esilio si sarebbe prolungato fino al ventunesimo secolo.

L’incertezza rese più facile la separazione, immagino. Fu il sedativo più importante e più naturale. A quel che ricordo, avevo la speranza che sarebbe stata un’avventura relativamente breve. Ed ero sicuro che nostra madre ci avrebbe raggiunto nel giro di pochi mesi, nove al massimo.

Se avessimo saputo che quella era l’ultima volta che alcuni di noi si vedevano, si abbracciavano e si toccavano, in quell’aeroporto avrebbero pianto tutti. I cubani sono molto emotivi, e molto fisici. Nella cultura cubana freddezza e riserbo sono considerati dei difetti caratteriali.

Ma quel giorno, in quell’aeroporto, tutti quei cubani sembravano calvinisti svizzeri in una fabbrica di orologi. O filosofi kantiani a convegno. O monaci zen che sistemano i loro giardini di ghiaia.

Mai e poi mai avremmo pensato che sarebbe durato tanto a lungo. Quaranta è un numero biblico, sapete. Mentre scrivo, nell’anno 2000, l’abbiamo superato di uno. E quarantuno è il numero della lucertola nella lotteria clandestina cubana. La lagartija. La lucertola. Se sogni una lucertola, dovresti giocare il quarantuno. Quarantun anni con Fidel Lider Maximo nell’isola lucertola. Forse avremmo dovuto scommettere tutto sulla lucertola. E io, in particolare, avrei dovuto saperlo.

(…)

Tony e io ci separamo fisicamente da tutti quanti con un saluto posato e affettuoso. Per qualche ora avremmo potuto ancora vederli e sentirli a fatica attraverso il vetro, ma non avremmo potuto più toccarli.

Quella era la tortura peggiore. Stare chiusi nell’acquario, loro da una parte e noi dall’altra, comunicando a gesti e scandendo le parole con le labbra perché si potessero leggere dall’altra parte dello stesso vetro.

Bastardi. Dios le perdone, companeros. Dio vi perdoni, compagni.

Tony e io entrammo nell’acquario, ci spogliammo per la perquisizione, illustrammo ogni elemento del nostro bagaglio, esibimmo i passaporti e ci sedemmo ad aspettare, scherzando tra noi il più possibile. Io sento ancora lo schiocco dell’elastico delle mutande contro il mio corpo, e la risata dell’ispettore.

(…)

Tony e io ci imbarcammo al tramonto, guardandoci alle spalle. Vedevamo la nostra famiglia in lontananza, dietro il vetro. Non un vetro oscuro, come nel Nuovo Testamento, ma chiaro, malgrado il crespuscolo. L’ultima cosa che vidi quel giorno prima di morire fu mia madre che agitava il suo bastone e mio padre accanto a lei, con le mani nelle tasche. Le enormi tasche di quei pantaloni ridicolmente larghi che indossava sempre dopo essersi infilato le scarpe.

Mi tuffai nell’aeroplano e in un vuoto tutto nuovo. Anche Tony si tuffò, portandosi dietro il suo abisso meraviglioso. L’uomo dell’aeroporto non era riuscito a trovarlo durante la perquisizione, proprio come non era riuscito a trovare le mie quarantuno lucertole.

Volete sapere che effetto fa morire?

Il tipo di morte di cui sto parlando non ha oceani di tempo in cui i vostri ricordi nuotano per l’eternità. No. Questo tipo di morte viene in un lampo, rapida come il fulmine. E silenziosamente, come una lucertola schiacciata da un bambino con la scopa. Sentii ruggire i motori, certo. Solo un sordo non li avrebbe sentiti. Li sentii perfettamente, quindi il silenzio di cui parlo è di un altro tipo.

E’ il silenzio che troviamo racchiuso in ogni paradosso.
Il silenzio che non possiamo avvicinare senza inchinarci.
Il silenzio che umilia tutti, perfino i più forti e i più temibili.
Anche Fidel arriverà a quel silenzio, un giorno. Forse presto, forse no.
Non importa quando, in effetti, ma ci arriverà.
E’ il silenzio al di là delle parole.
Il silenzio al di là della ragione.
L’ineffabile ignoto.
Il silenzio onnisciente che solo il terzo occhio può vedere.
Il silenzio gioioso che accetta l’imperfezione come assoluta perfezione.
Il silenzio bruciante, la dolce fiamma che ti fa mancare la terra sotto i piedi e ti fa gridare “Fuoco! Fuoco! Fuoco! Sto svanendo, tutto mi sto consumando!”
Todo me voy consumiendo.

In un batter d’occhio – anzi, in una frazione di un batter d’occhio – passi attraverso quel silenzio bruciante ed emergi esattamente nello stesso punto, nello stesso identico corpo, meravigliosamente trasformato, una scintillante tabula rasa.

Forse non sembra meravigliosa all’inizio, quella trasfigurazione.
E invece è meravigliosa, e scintillante, e di un bianco abbacinante come la più bianca delle nuvole.
E dolorosa come l’inferno.

Non avevo mai volato su un aereo. Era così eccitante. L’aereo rollò sulla pista a una velocità che mi parve ultraterrena, incollandomi allo schienale. Prendemmo ancor più velocità e poi di colpo decollammo.

Eravamo in aria, non più sul suolo cubano. In aria, come Peter Pan. Su, tra le nuvole. E vidi la campagna cubana sotto di me, per la prima e ultima volta. Ero rimasto incollato alla splendida e terribile Avana tutta la mia vita, e non avevo visto molto dell’isola lucertola. Luigi XVI non amava viaggiare e non ci portava mai molto lontano dall’Avana. Immagino che avesse già visto gran parte del mondo in tutte le sue vite.

Guardai fuori dal finestrino, pietrificato, mentre Cuba diventava sempre più piccola sotto di noi.

Guarda tutto quel verde! Guarda! Com’è verde!
Pensa quante lucertole devono esserci laggiù!
Pensa a tutti gli stregoni voodoo e ai demoni che restano laggiù, proprio laggiù, in mezzo a tutta quella vegetazione!
Guarda lì! Che buffo! Guarda quelle palme reali ovunque! Sembrano stecchini da cocktail con gli ombrellini colorati che tengono insieme i tramezzini di prosciutto e insalata! Come quelli che ho mangiato dopo la mia Prima Comunione!
Guarda quelle nuvole! Sono molto più vaporose di come appaiono da terra!
Guarda quel mare! E’ più grande di quanto pensassi, molto più grande! E le onde, dove sono? Non le vedo. Chissà quanti pesci pappagallo ci sono laggiù in questo momento, e quanti squali. Quanti?
E guarda là! Quel sole che tramonta, laggiù!

E’ color mandarino, come sempre, e brilla come un’ostia incandescente, ma non tramonta dove l’ho sempre visto tramontare. C’è solo mare, nient’altro che mare sotto di noi. Niente più L’Avana. Niente più L’Avana color mandarino.

“Sarà bellissimo poter bere di nuovo la Coca-Cola, vero?” dissi a Tony.
“Sì, certo, e anche a masticare gomme.”
“Chiederò una Coca-Cola appena sceso dall’aereo.”
“E io un intero pacchetto di gomme alla menta.”

Avevamo attraversato il silenzio bruciante. Dritto in mezzo. E ora sono qui che scrivo. Questa parte è finita. Ma è solo una piccola parte della storia. Il silenzio può essere bello. Non fatevi spaventare troppo. E non temete l’abisso.

(…)

Morire può essere bello.
E svegliarsi ancora più bello. Anche quando il mondo è cambiato. Soprattutto quando il mondo è cambiato.
Tu sabes. Lo sai.
Immagina un’alba color mandarino che non finisce mai, che aleggia in eterno sopra una nuvola turbinante di pesci pappagallo nel mare turchese.
Immagina onde assassine che ti vengono incontro, onde turchesi, sotto nuvole cubane bianchissime che inglobano il color mandarino e lo rendono ancora più luminoso.
Immagina che non ci sia fine alle onde.
Mai.
Nessuna fine

Sin fin.
En fin, sin fin.
Tu sabes.