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Lo scorso 6 giungo i ragazzini della Bridge Farm primary school di Bristol, Regno Unito, hanno trovato al loro ingresso a scuola, una sorpresa. Sui muri dell’edificio c’era un murales di grandi dimensioni. Il disegno, reso con tratto che volutamente richiama gli scarabocchi infantili, rappresenta un bambino (o una bambina) che gioca in un ipotetico cortile con un pneumatico in fiamme.

Il murales non era il gesto di un vandalo, l’opera di un artista tanto conosciuto in tutto il mondo, quanto è ignota la sua vera identità. La sua firma però, la conoscono tutti: Banksy. Realizzata a sorpresa nella notte, l’opera era infatti accompagnata da un biglietto, autenticato dai portavoce ufficiali dell’artista. Banksy dichiarava che l’opera era un regalo per i ragazzini e un ringraziamento per la scuola, che da poco gli ha intitolato un’aula (Banksy è nato proprio a Bristol).

L’artista poi aggiungeva che il destino dell’opera, per quanto lo riguarda, è nelle mani dei ragazzi. Loro stessi potranno perciò decidere se tenerla, cancellarla, o intervenire come vogliono, in barba a ogni auraticità e autoralità del lavoro artistico. Perché, come recita ammiccante il biglietto, è bene che i bambini si ricordino che: “è più facile ottenere il perdono che il permesso”. 

Banksy oggi è forse il più famoso portavoce della street art, forma d’arte per sua natura insofferente alle regole e alle costrizioni del cosiddetto sistema. Questo non impedisce però a Banksy di essere oggetto di studi e attenzioni di tutto riguardo da parte del sistema stesso. Ne abbiamo un esempio in casa nostra. In Italia, a Roma, è attualmente in corso a Palazzo Cipolla una sua mostra di così grande successo da aver contato già più di 6000 visitatori la prima settimana, tanto che gli organizzatori hanno deciso di allungare l’orario di apertura per consentire l’accesso a tutti i visitatori.

Nonostante l’interesse del mondo dell’arte che conta, Banksy resta però sempre un outsider, per definizione. Il suo lavoro veicola messaggi forti, persino stereotipati. La poesia è palpabile, i sentimenti tangibili, vicini a chi guarda. La questione dell’anonimato poi, fa pensare a lui come una specie di anti-Warhol: nessuno lo ha mai visto, altro che quindici minuti di celebrità per ciascuno.

Eppure la ricaduta del suo essere senza volto, è opposta: oggi la sua celebrità è internazionale e travalica le tradizionali barriere del mondo dell’arte. Tutti lo conoscono. Banksy è così. Amato da tutti, polemico con tutti. Forse perché usa un linguaggio comprensibile e sostanzialmente piano, rispetto a tanta produzione artistica contemporanea, che spesso e volentieri confonde la cripticità con il senso. Forse perché fa opere in location simboliche, privilegiando sempre soggetti dal forte impatto sociale e culturale, immediatamente riconoscibili. Forse perché agisce sempre ai limiti della legalità ed è sempre, rigidamente, anticonformista.

Ed è qui che sorge il dubbio. Non tanto sull’opera, ma sull’idea di fondo che essa veicola e da cui, in certo senso, è veicolata. La domanda è la seguente: questo anticonformismo, espresso con rigidità, non nasconderà qualche trappola? C’è da dire che qui la rigidità risponde almeno a due esigenze. Da un lato è necessaria a rendere il lavoro di Banksy ben riconoscibile e identificabile con una cifra stilistica molto precisa. D’altro canto, è utile per ottenere l’effetto “urlato”, per così dire, dei contenuti, ovvero per far sì che questi siano facilmente uditi e, per la mancanza di sfumature, genericamente condivisi. Stile, questo, che seppure in modo e con toni a volte diversi e spesso peggiori, almeno in Italia è molto di moda nel dibattito politico attuale. 

Perché è vero. L’arte oggi non parla a tutti, anzi, fatica a parlare a molti. Viene in mente quella scena de La grande bellezza, quando Toni Servillo alias Jep Gambardella chiede a una fantomatica artista concettuale che cosa sono le vibrazioni, nell’ilarità generale di almeno un certo tipo di pubblico.

L’arte tradizionale, immessa nel tessuto a maglie strettissime di musei e gallerie, non è quasi più capita se non da chi la fa e la propone. L’arte non parla alle persone, a meno di diventare pop - ma allora i “veri” artisti ne prendono subito le distanze, inorriditi. Eppure l’anticonformismo tout court nasconde altre trappole, prima fra tutte quella del famigerato populismo. 

Da sempre compito dell’arte è incarnare, dare voce e forma, a un’identità culturale, che è tanto più bella e viva quanto più è capace di dialogo e apertura. Il suo effetto desiderato è fomentare l’aggregazione e il superamento fruttuoso delle differenze. Per adempiere questa missione però, l’arte non può accontentarsi di starsene chiusa in musei o gallerie, le cui porte sono sì fisicamente aperte a tutti, ma le cui soglie pochissimi varcano, poiché la chiusura è a monte, e ha a che fare con un’arte – Fantozzi insegna – che si autodescrive come elitaria per vocazione. 

Perciò è facile identificare la risposta in un’arte libera, che si fa in strada e coinvolge la gente comune. Ma ecco riaffacciarsi qui lo spettro del populismo. Ma sarà vero che l’artista, dall’alto della sua non appartenenza al sistema, può permettersi di fare la predica? E a chi? O ancora, è lecito chiedersi, negli effetti, che cosa arriva ai ragazzini di Bristol del lavoro di Banksy? Che cosa dice loro quel disegno? Certo è che il lavoro ha dalla sua l’immediatezza dell’immagine, è piacevole e scenografico, e la firma è famosa. Ma anche se in sé il lavoro è bello, e la voglia di dare una scrollata a un mondo culturale davvero asfittico e poco fertile è condivisibile, il rimbotto finale per cui “è più facile ottenere il perdono che il permesso” subito stona. Sa di captatio benevolentiae, di strizzatina d’occhio. È come invitare a rubare la marmellata, perché tanto poi (questo è davvero inquietante) non succede niente.

Certo, la critica velata è alla società com’è, l’invito a crearne una più o meno, genericamente, migliore. Qualcosa di analogo succede quando in politica si identifica nella poetica dei movimenti partiti dal basso, o dalla rete, come nelle derive leghiste o grillin-populiste, la possibilità di una svolta fatta però di slogan, di assunti solo all’apparenza universalmente condivisibili. Tutto molto bello, tutto molto facile. Ma non lo sarà troppo? Perché se è chiara la predica, non è tuttavia indicata né la soluzione, né quale sia il lavoro da compiere o la strada da percorrere

Si dirà allora, forse, che questo non è compito dell’artista. Che l’artista non gestisce la cosa pubblica e si limita a puntare il dito. Può darsi. Purché poi non nasconda la mano. Il dubbio, in altre parole, è che l’anticonformismo elevato a sistema sia una trappola tanto quanto il conformismo, e il sospetto che, alla fine, l’adolescenza debba essere felicemente salutata anche dal più testardo dei Peter Pan. Non certo per spoetizzare la propria visione del mondo e diventare cinici (non realistici): ma perché arriva un momento in cui bisogna fare qualcosa di concreto, tirarsi su le maniche, prendersi delle responsabilità. Perché non sono sempre gli altri a decidere per te, e il tuo compito non è solo ribellarti, ma costruire, attivamente, qualcosa che abbia un senso.

O almeno provarci, con il rischio di sbagliare. Altrimenti è tutto troppo facile e vorrebbe dire (questo, sì, sarebbe veramente triste), che anche nell’arte, tra i Pink Floyd che cantavano we don’t need no education e Giamburrasca, non c’è niente di nuovo sotto il sole.