Istruzione femminile

Un articolo di qualche giorno fa ha riportato la tesi, sostenuta nel libro di S. Mintz The prime of life. A history of modern adulthood, secondo cui “Il rallentamento dell’economia e la crescita dell’importanza attribuita a una buona formazione universitaria fa sì che sempre più giovani ritardino il matrimonio o scelgano di non sposarsi”. La conseguenza sarebbe una netta riduzione delle nascite, sì che la scelta di un’istruzione di livello elevato da parte delle donne si risolverebbe in un “gesto antisociale”.

A ciò potrebbe semplicemente replicarsi che l’idea di soffocare qualsivoglia istanza di realizzazione femminile appare quanto meno insensata. Tuttavia, è sempre utile avvalersi di argomentazioni razionali – non limitandosi a richiamare il mero buon senso – ogni qual volta si voglia confutare un’opinione diversa.

Nonostante il calo demografico nazionale, oltremodo consistente secondo gli ultimi dati, si accompagni a un miglioramento del tasso di istruzione, specie delle donne, restano comunque dei dubbi circa il ruolo causale della scolarizzazione nella riduzione della fecondità: basterebbe limitarsi a rilevare che, in ambito UE, l’Italia ha un livello di istruzione tra i peggiori e, al contempo, un calo delle nascite tra i maggiori.

Tuttavia, volendo approfondire, si consideri uno studio del 2011 teso a dimostrare come l’innalzamento del livello di educazione femminile per effetto dell’allungamento temporale dell’obbligo scolastico abbia portato in alcuni Paesi a un aumento del numero medio di figli: ciò sembra trovare spiegazione nel miglioramento delle prospettive di reddito – e, quindi, nella possibilità di mantenere più bambini - determinato dalla possibilità di svolgere lavori di qualità, grazie al più elevato livello di istruzione. Del resto, maggiori entrate a disposizione delle donne si traducono in “maggiore spesa in istruzione, salute, nutrimento dei figli”.

Già nel 2007, peraltro, uno studio dell’OECD aveva evidenziato come la correlazione negativa tra tassi di occupazione femminile e tasso di fertilità, esistente fino ai primi anni ’80, avesse subito un’inversione di segno nei primi 2000. In quegli anni, a un maggior impiego delle donne cominciarono a corrispondere livelli di natalità più elevati: quindi, l’impatto negativo dell’istruzione sulla fecondità si indeboliva sino a sparire e poi invertirsi, una volta completata la formazione culturale, stabilizzata la condizione lavorativa e conseguita la disponibilità di risorse economiche adeguate. Venivano così “recuperate” le maternità cui, in un primo momento, si era rinunciato.

Muovendo dall’assunto che un livello di scolarità più alto aumenta la probabilità di trovare un impiego e che la disponibilità di maggiori risorse favorisce la propensione alla maternità, se si considerano i Paesi europei nei quali più elevato risulta il numero di figli per donna, appare evidente che non è l’istruzione il fattore determinante sulla scelta di avere figli. Infatti, i dati inerenti a tali Paesi (un caso esemplare è fornito dalla Francia), nei quali le donne con tre o più bambini lavorano più di quelle italiane con un solo figlio, dimostrano che la promozione dell’impiego femminile mediante politiche complementari a sostegno della famiglia (contribuzione ai costi inerenti alla cura dei figli, offerta di strutture pubbliche per la cura dell’infanzia, sgravi fiscali ecc.) favorisce un incremento della natalità.

Quanto osservato in sede UE trova conferma anche nella nostra realtà nazionale: nelle regioni ove l’occupazione femminile è maggiore, in quanto agevolata da una più ampia copertura di strutture per l’infanzia, si riscontrano altresì livelli di fecondità più elevati. D’altro canto, se in Italia è più facile tornare al lavoro dopo la nascita di un figlio “per le donne istruite”, nonché per quelle “che vivono dove ci sono opportunità di childcare”, appare evidente che, unitamente al welfare per l’infanzia, l’istruzione può favorire la maternità, e non l’opposto, come sostiene la tesi da cui si sono prese le mosse.

Infine, non può non considerarsi che sul calo nazionale delle nascite incidono fattori quali la crisi economica - a causa della quale “è ormai dominante il modello del figlio unico”  – e che la scelta di contenere il numero di gravidanze è influenzata dal fatto che “la gestione delle responsabilità familiari e di crescita dei figli (è) prerogativa ancora prevalentemente femminile”, specialmente nelle regioni dove minore è il tasso di natalità, di lavoro delle donne, di copertura di servizi per l’infanzia e, invece, sono maggiori le asimmetrie di genere.

Una serie di argomentazioni sembra, quindi, contraddire la tesi esposta all’inizio, ma ne sarebbe bastata una sola, come accennato: la libertà, innanzitutto “culturale”, che il genere femminile ha acquisito nei secoli faticosamente non può essere limitata, qualunque ne sia il motivo. Grazie alla cultura le donne possono oggi contestare affermazioni come quella di partenza: è forse questo il problema?

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”: uomini e donne, indifferentemente.