Tra i ricordi del periodo degli esami di maturità ce ne è uno che conservo più di altri, e sul quale ho avuto modo, nel corso degli anni, di riflettere a lungo. La scena si svolge nella periferia romana, nel quartiere Tre Pini - abitavo da quelle parti - a casa di una mia compagna di classe. Nella sua mansarda, per l'esattezza, dove ci vedevamo spesso con il nostro gruppetto di amici in pomeriggi che sfogavano inevitabilmente in cene e dopocene. Eravamo tutti giovani intellettuali wanna be in un epoca, il crinale degli anni '80, in cui si erano spente definitivamente le velleità rivoluzionarie del decennio precedente e in cui dominava quello che noi, con notevole spocchia e malcelato ribrezzo, chiamavamo "riflusso".

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Noi il mondo lo volevamo ancora cambiare, e ci vedevamo spesso come gli amici al bar della canzone di Gino Paoli a discutere di quanto brutta fosse la piega che la società stava prendendo, e di quanto ci sarebbe stato bisogno di gente come noi, se solo ce ne fosse stata di più. L'amica che ci ospitava si sarebbe iscritta, nel solco della tradizione della sua famiglia, a Ingegneria. Suo padre, ingegnere, lavorava per una società francese che costruiva centrali nucleari in giro per il mondo, sua madre, ingegnere, insegnava alla Sapienza e sua sorella si era iscritta anch'essa a Ingegneria un paio di anni prima. Era una famiglia di solida tradizione comunista, in cui si sposavano perfettamente la curiosità scientifica con quella umanistica: una casa piena di libri, le pareti affollate di quadri e piccole opere d'arte fatte in casa.

Noi no. Io mi sarei iscritto a Lettere nel solco della mia, di tradizione familiare, senza ancora aver chiaro quale fosse l'indirizzo che avrei preso, qualcuno avrebbe fatto filosofia, qualcun altro pensava di più alla storia, alla letteratura, all'antropologia culturale o ai famigerati dipartimenti di musica e spettacolo che si stavano diffondendo in quegli anni. La nostra ospite ingegnere, effettivamente, era un'eccezione, che tendevamo a non capire e che giustificavamo solo per un discorso di coerenza familiare. Era proprio quello l'argomento di discussione della serata: cosa faremo da grandi?

La sorella maggiore della nostra ospite spesso irrompeva nella mansarda, si versava un bicchiere di vino, impartiva a noi pischelli qualche perla di saggezza sul senso della vita e se ne tornava di sotto. Quella sera, dopo averci sentito filosofare sui nostri destini accademici, disse una frase che ancora oggi ricordo nitidamente - e se me la ricordo così bene è segno che qualche dissonanza cognitiva deve avermela procurata: "guardate che per cambiare il mondo non ci vogliono solo filosofi e poeti, ci vogliono anche - e soprattutto - scienziati e ingegneri".

Ripensavo a questa scena ieri, dopo aver letto le tracce dei temi della maturità di quest'anno. In particolare, la frase di Martha C. Nussbaum potevamo averla detta noi a quei tempi. Anzi, mi sembra proprio che la sintesi della discussione della serata alla fine fosse proprio quella, quasi letteralmente sovrapponibile: certo, figuriamoci, la scienza è importante, per carità. Ma per capire davvero il mondo ci vogliono ben altre sensibilità. Non si può ridurre tutto a una meccanica corsa al profitto.

In un certo senso il panorama intorno a noi sembrava darci ragione: noi leggevamo libri, gli altri, al massimo, il Corriere dello Sport. Noi andavamo ai concerti dei Deep Purple e dei Jethro Tull, gli altri si rintronavano con gli Spandau Ballet nel walkman. Noi andavamo alle manifestazioni, gli altri approfittavano delle nostre manifestazioni per saltare un giorno di scuola e andarsene a guardare le vetrine di Viale Europa. Noi ci saremmo iscritti a Lettere e Filosofia, gli altri avrebbero fatto Economia e Commercio, Ingegneria, Giurisprudenza. Anche nella scelta del nostro destino, riconoscevamo la netta divisione tra essere e avere (chi non aveva appena letto Fromm, all'epoca?), e noi eravamo dalla parte dell'essere, dei buoni e dei giusti.

E neanche il notevole maggiore impegno che le altre facoltà avrebbe richiesto ai nostri compagni di scuola indirizzati verso l'avidità e il profitto, rispetto a Lettere che tutto sommato è una passeggiata, ci faceva venire qualche dubbio, anzi: ai nostri occhi il temibile biennio di Ingegneria non era altro che il primo passo all'interno dell'ingranaggio che lo Stato borghese aveva costruito per i suoi rampolli, sottoponendoli a una selezione feroce dopo aver lavato loro il cervello. Noialtri, per nostra fortuna, eravamo diversi: non avremmo fatto i soldi nella vita (nessuno di noi veniva da una famiglia disagiata, naturalmente) ma avremmo conservato la nostra dignità.

Mi è tornato spesso alla mente, quell'episodio, negli anni. Quando, da piccolo imprenditore, mi mancavano basi che avrebbe avuto anche uno studente di Ragioneria per far quadrare i conti, o adesso che ho, più coerentemente con le mie velleità di allora, l'opportunità di raccontare un po' del mondo che ho attorno, e rimpiango la mancanza di strumenti analitici - soprattutto di carattere economico e scientifico - adeguati.

Ma ci ripenso anche e soprattutto ogni volta che leggo una frase come l'orrenda citazione della Nussbaum e la confronto con la realtà. Una realtà in cui non l'avidità e il profitto, ma il benessere e l'aspettativa di vita si sono diffusi grazie alla scienza e alla tecnologia, e al lavoro di gente meno presuntuosa di quanto eravamo noi all'epoca. La signora Nussbaum dovrebbe ringraziare chi si occupa di scienza, tecnologia, economia, per averle dato l'opportunità di coltivare le sue passioni e i suoi interessi in un mondo migliore di quello che sarebbe mai stata in grado di costruire lei, e noi con lei. Noi, al massimo, avremmo potuto ambire ad essere fortunosamente cooptati al Ministero della Pubblica Istruzione a generare perle come quella degli esami di ieri, nel tentativo di rovinare altre generazioni, oltre alla nostra, e di fornire alibi a buon mercato alla nostra pigrizia e alle nostre velleità infantili.

C'è, peraltro, anche un'altra traccia che si occupa di scienza e tecnologia - non potrebbe essere altrimenti, con probabile rammarico dei burocrati del MIUR, dal momento che un'opzione di ambito scientifico ci deve essere per forza tra i temi della maturità - e se possibile è ancora sconfortante della precedente: si parla delle opportunità offerte dal progresso tecnologico, invitando gli studenti ad osservarlo con occhio critico. Lo spunto? I telefoni cellulari.

Il bello è che più di vent'anni fa erano proprio i telefonini, che irrompevano allora sul mercato, ad essere uno dei trend topic delle nostre serate bohémiennes. Naturalmente ci facevano orrore, ci sembravano un simbolo di tutto ciò che noi non avremmo mai voluto essere, a cominciare dagli odiosi squilli al ristorante o dalle conversazioni in pubblico. Una gag televisiva che terminava con il tormentone "la cabina, un posto sicuro!" era diventata un nostro inno generazionale. Cito testuale dalla traccia di ieri (da un articolo de La Stampa del 2015, non del 1995): "L'uso del cellulare anche quando si è a tavola con ospiti o in famiglia. Conversare ad alta voce al telefono quando si è in luoghi pubblici, sul treno o in metropolitana. Inviare messaggi o telefonare (magari senza vivavoce) anche se si è alla guida. L'elenco potrebbe continuare con episodi più o meno sgradevoli che giungono alla maleducazione".

La buona notizia è che qualcuno di noi ce l'ha fatta. Non sarà magari "entrato in banca", come il compagno di scuola della canzone di Venditti, ma evidentemente al Ministero sì. E lì probabilmente c'è ancora il fumo delle barricate, e le cabine del telefono a gettoni.