Il Sassicaia fu commercializzato per anni come semplice Vino da Tavola, dal momento che nella Maremma in cui il marchese Incisa della Rocchetta aveva piantato, quasi per gioco, alcuni filari di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, non c’erano vigne, ma pecore e vacche dalle lunghe corna, e quindi non esisteva una Doc che potesse rappresentarlo.

giacomo tachis

Non è un aspetto marginale della storia del Sassicaia e del suo geniale inventore, l’enologo Giacomo Tachis, scomparso l’altroieri a 82 anni di età. Dietro questo particolare c’è la storia del vino italiano degli ultimi decenni, e del suo rapporto conflittuale e paraculo con l’innovazione.

L’etichetta di un Vino da Tavola non può riportare né l’annata, né i vitigni utilizzati né l’indicazione della località da cui il vino proviene. Non può. E’ vietato, proibito. Non significa che si può fare a meno di indicare queste informazioni, ma che indicare queste informazioni è considerata una frode commerciale. Di più, ci può essere solo l’indicazione dell’imbottigliatore, e non del produttore, e se sono - come spesso avviene - la stessa persona, non può essere menzionata la vocazione “agricola” dell’azienda nemmeno nella ragione sociale: se ti chiami “azienda vinicola Tal dei Tali”, dovrai scrivere esclusivamente “imbottigliato da Tal dei Tali”.

Il Vino da Tavola, secondo il senso comune, è un prodotto scadente, un miscuglio di scarti di cantina assemblati da un imbottigliatore da quattro soldi, in cui vitigno, annata e terroir sono irrilevanti. I vini buoni, sempre secondo il senso comune, quelli che vale la pena bere spendendo qualcosa in più del prezzo all’origine di tappo e bottiglia, sono Doc, a denominazione d'origine controllata. Meglio non generare confusione nel consumatore. Sulle etichette del vino è vietato dare informazioni - vere - che possano contraddire le attese - sbagliate - del potenziale cliente. Questo per far capire la dimensione degli ostacoli che deve affrontare chiunque voglia provare a innovare, nel mondo del vino in Italia.

Ed era infatti un mondo placido e tranquillo, quello del vino in Italia - soprattutto nell’Italia centrale e in Toscana - prima che il Sassicaia gli franasse addosso. La Doc del Chianti si allargava lentamente ma inesorabilmente ben oltre i confini del Chianti stesso, andando a lambire quasi ogni angolo della Toscana, dalle crete dell’Amiata ai colli pisani, per la gioia di chiunque avesse una vigna e fosse in grado di fare uve da cantina sociale, e se dal contenuto delle bottiglie non ci si aspettava più di tanto, quel tanto bastava per far tutti felici: i produttori consorziati, che avevano l’esclusiva del mercato, gli amministratori locali e nazionali, che trasformavano la riconoscenza in consenso, e anche i consumatori, cresciuti in un mondo in cui i vini si mettevano nel fiasco e si consumavano alla svelta - di pronta beva, come si usa dire oggi, o addirittura “abboccati”, dolciastri, come dicevano i nostri nonni. Per la qualità bastavano alcune isole felici - Montalcino, Montepulciano, Barolo e Barbaresco - e più non dimandare.

Il Sassicaia, prodotto del genio di Tachis e del culo di Mario Incisa della Rocchetta - un nobiluomo che voleva fare il vino per sé e per gli amici, e farlo “alla francese” - dimostra come fuori dai recinti corporativi delle denominazioni d’origine possano nascere eccellenze sorprendenti, non solo i milioni di ettolitri di tavernelli in cartone, mai visti nella realtà ma sempre evocati minacciosamente per continuare a giustificare tanto l’esistenza e il potere dei consorzi, quanto la necessità di contingentare le produzioni attraverso i famigerati diritti di reimpianto. 

Di più, non solo il Sassicaia non ha avuto bisogno della protezione di una Doc per venire al mondo e per avere successo, ma ha anche trasformato completamente la viticoltura toscana e italiana. Non sono passati neanche cinquant’anni dalla prima bottiglia messa in commercio e oggi la Maremma, che fino ad allora non aveva visto un solo grappolo d’uva, è completamente coperta di vigneti, con tanto di Doc e Docg nate a tutelarne l’origine e il metodo di produzione “tradizionale”. Le barriques hanno invaso le cantine, così come i tanti vitigni con l’accento sull’ultima sillaba hanno invaso i vigneti e i nuovi vini declinati in “àia” hanno riempito gli scaffali e le carte dei ristoranti. Sono stati rivoluzionati i disciplinari delle Doc - siamo ormai nei primi anni ’90 - ad accogliere le novità che il mercato chiedeva a gran voce, riducendo i quantitativi massimi di uve per ettaro ed espellendo finalmente la percentuale di uva bianca prevista dalla vecchia ricetta chiantigiana del marchese Ricasoli. Sono diventati tutti supertuscans, anche i vini più imbolsiti delle denominazioni tradizionali.

Anche il Sassicaia alla fine si è imborghesito: nato libero dalle gabbie stantie della tradizione e delle rendite corporative, si è visto riconoscere una Doc personale - Bolgheri Sassicaia - i cui confini corrispondono a quelli dell’azienda che lo produce, a rappresentare l’unicità e soprattutto l’irripetibilità di una simile esperienza: non sia mai che qualche altro Vino da Tavola possa andare di nuovo a disturbare il sonno della viticoltura italiana. Intanto al suo straordinario inventore, Giacomo Tachis, non possiamo che essere profondamente riconoscenti.