Quando lo incontri, Noam Chomsky ti pone tre problemi. Lo sa bene Andrea Moro, suo allievo, che ha avuto il compito di introdurne la lectio magistralis – affollatissima e molto attesa – al Festival delle Scienze di Roma.

Noam Chomsky

Il primo problema, spiega, è quello di Platone, e si riferisce allo studio del linguaggio: come facciamo a sapere così tanto avendo così poche informazioni? Il secondo è invece il problema di Orwell, e riguarda la politica: come facciamo a capire così poco avendo davanti a noi così tante prove – intende: della nefandezza del potere? Il terzo problema, se possibile, è ancora più radicale. «Come fai – si chiede Moro – a rimanere te stesso? Chomsky ti cambia il modo di pensare». E il suo dirompente effetto non è solo individuale, non sa sconvolgere solo l'esistenza degli allievi. Ha saputo radicalmente trasformare la linguistica tutta.

Il professore, infatti, non ha guardato solo le parole e le frasi, ma si è messo a indagare dentro la testa dell'uomo, convinto che il linguaggio si trovasse là, da qualche parte, perché, spiega «non è altro che un organo, per così dire, del cervello». Una attività innata che ha fatto la sua comparsa in maniera brusca nell'esistenza umana: tra 50mila e 100mila anni fa un sistema finito, fatto di neuroni e materia, ha dimostrato di avere un potere creativo infinito. Non solo: si è svelato per quello che è. Una mente computazionale, comune a tutti, e sede naturale della grammatica universale – quell'insieme di norme e principi che regolano il linguaggio e che riguardano ogni lingua.

Insomma: «il linguaggio – spiega – è come un fiocco di neve». È plasmato da leggi di natura, valide sempre e in ogni dove sul nostro pianeta, e soddisfa leggi di base comuni. Una su tutte: l'operazione merge, la proprietà più semplice di ogni sistema computazionale per la quale x più y produce z. Un oggetto nuovo che non modifica i primi due. L'operazione merge è semplice e solo umana.

Alcuni ricercatori, per esempio, hanno provato a testare il contrario chiedendosi se le scimmie potessero imparare a parlare. È accaduto negli anni Settanta quando un gruppo di studiosi della Columbia University ha provato ad insegnare la lingua inglese a uno scimpanzé. Dopo numerosi sforzi il risultato fu deludente: l'animale riuscì a ripetere 130 parole ma non riuscì mai a comporre delle frasi. Non poteva, perché il suo cervello non glielo permette, non è una mente computazionale. Gli animali a loro modo comunicano – miagolano con un tono, abbaiano con un altro, fanno pipì per segnare un territorio – ma non sono in grado di mettere insieme x e y formando z. Noi lo facciamo sempre. Non solo quando parliamo in italiano, inglese, giapponese o   cinese. Ma anche quando giochiamo e inventiamo una lingua inedita.

Lo hanno dimostrato i ricercatori dell'Università di Londra, i quali hanno chiesto a un gruppo di parlanti inglesi, con competenze linguistiche nella norma, di creare da zero un vocabolario e una sintassi nuovi. Il risultato? Il linguaggio artefatto rispondeva a tutti i principi della grammatica universale e soddisfaceva le condizioni minime di un sistema computazionale. Il motivo è semplice: è il cervello a pensare così e a creare manufatti in grado di rivelare i meccanismi che lo governano. Succede sempre e ogni volta, senza rendercene conto, quando parliamo – ma, attenzione, spiega Chomsky «anche quando pensiamo e usiamo il nostro inner dialogue» - prediligiamo sempre l'efficacia computazionale rispetto all'efficacia comunicativa.
In sostanza non diciamo mai: «Quale libro legge Giovanni quale libro?». Ma rispettiamo principi di economia, sia linguistica, usando il minor numero di parole possibile, che fisica, cercando di articolare pochi movimenti. Il risultato finale è la trasformazione della prima frase in: «Che libro legge Giovanni?».

Una espressione problematica perché, proprio come una ruga su un volto, rappresenta un vuoto e richiede di essere riempito. Ecco cosa è il fillergap problem: la frase esternalizzata, ossia prodotta, richiede una operazione mentale per essere compresa. Per questo, conclude Chomsky, il linguaggio non è un oggetto prioritariamente comunicativo. Ci permette di scambiare informazioni, certo, ma se i principi della comunicazione entrano in conflitto con quelli computazionali sono i secondi a prevalere. E a renderci umani. «La proprietà merge è umana, solo umana», spiega il professore.

Perché, allora, è nato il linguaggio se, come ripete più volte Chomsky «non è stato progettato per la comunicazione»? La domanda non ha ancora una risposta anche se esistono diversi programmi di ricerca, anche in ambito neurologico, per trovarne una convincente. Ma, pur se non certo della soluzione del quesito, Chomsky è sicuro del metodo per arrivarci. Guardare i bambini e le cose piccole. I bimbi infatti hanno proprietà meravigliose, per una ragione semplice: il loro cervello è del tutto attivo. Nei sistemi biologici, infatti, quando un organo non viene utilizzato perde la propria funzione. Accade in tutti gli animali, anche nell'uomo. È per questo che i bambini imparano una lingua con più facilità mentre un adulto che non l'ha mai fatto, e produce frasi solo nel proprio idioma madre, con elevatissime difficoltà ne apprenderà da grande uno nuovo.

E poi le cose piccole. Non servono i big data, le grandi quantità di informazioni, per comprendere il mondo. «La mente scientifica è quella che vede una mela cadere dall'albero – conclude Chomsky – e poi guarda la luna e capisce che tutte e due sono attratte dalla stessa forza». Ecco perché Chomsky ti cambia la vita. Perché, spiega Moro, il terzo Chomsky, quello umano ti insegna a «stupirti di fatti semplici». E attraverso quelli trasformare la comprensione del mondo.