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Nel recente articolo di Zollo et al., Debunking in a world of tribes, di cui ho parlato nel mio precedente contributo a questo magazine, le tribù a cui si fa riferimento sono quelle contrapposte degli informatori scientifici e dei complottisti di vario tipo. Ma non è difficile estendere il concetto di tribù a qualunque schieramento contrapposto tra comunità che al proprio interno siano portatrici di valori, pratiche e segni di riconoscimento (dal linguaggio specialistico al modo di vestirsi) in grado di veicolare un forte senso identitario.

Si possono notare fenomeni tribali su varie scale: la rinascita dei localismi, il secessionismo, e il successo dei movimenti conservatori e delle politiche xenofobe e tendenzialmente repressive, in risposta a un periodo critico segnato da grandi flussi migratori, dal terrorismo di matrice islamica, dalla crisi economica, dalle conseguenze della globalizzazione, dalla precarietà lavorativa e dall’austerity; si assiste alla polarizzazione dei dibattiti intorno agli stili di vita, all’uso e alla regolamentazione delle armi, ai diritti civili, ai regimi alimentari, all’etica della ricerca scientifica e all’accanimento terapeutico, come testimoniato dalla storia di Charlie Gard.

Questi gruppi di persone così diversi hanno un comune denominatore: la credenza genuina che il proprio gruppo di riferimento sia depositario di valori e di prassi intrinsecamente migliori di quelle degli altri gruppi, valori che chiunque sia onesto e ragionevole non potrebbe fare a meno di adottare. Per questo chi si trova (o viene percepito) all’esterno della tribù è spesso oggetto di definizioni forti o di commiserazione. La polarizzazione si verifica anche, e forse di più, se la propria tribù di appartenenza è frutto di una scelta deliberata (almeno apparentemente) e non di una condizione “intrinseca” come possono esserlo la famiglia o il paese di provenienza. In un mondo in cui tutto è interconnesso, non vi è limite al livello di personalizzazione che si può raggiungere nella selezione delle connessioni importanti. Conta di più il bene della propria famiglia o della propria categoria professionale? Il benessere della propria classe sociale o della collettività?

Per riprendere una felice metafora utilizzata da Paolo Gallina nel libro L’anima delle macchine, ognuno di noi si trova al centro di una zattera e ha solo uno spazio limitato per farvi salire altri. Sulla zattera possono prendere posto persone vicine a noi, ma anche esseri inanimati e concetti astratti, come le ideologie. Se allarghiamo troppo la zattera, rischiamo che si rompa consegnandoci ai flutti.

Naturalmente il tribalismo non è una faccenda nuova: è un elemento di successo, legato alla costruzione di un percorso identitario, che ha permesso a Homo sapiens di acquisire un vantaggio evolutivo e di prendere il sopravvento sulle altre specie del genere Homo. Grazie allo sviluppo di strumenti che permettevano l’agricoltura ed eliminavano la contesa fisica tra gli uomini e gli altri predatori, il corpo umano, passando dal nomadismo alla stanzialità, è andato incontro a un processo di gracilismo progressivo. È stato perciò necessario appoggiarsi alla propria comunità di appartenenza per sottrarsi alla competizione, e questo ha garantito il diritto alla sopravvivenza, a patto di rimanere aderenti ai valori e alle pratiche della propria comunità. Le tribù umane vere e proprie sono nate solo dopo l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, quando l’umanità è diventata stanziale e ha cominciato a creare connessioni stabili, narrazioni condivise e legate al proprio luogo di residenza, tradizioni culturali e rituali, il tutto agevolato dallo sviluppo del linguaggio articolato. Prima di allora sarebbe più appropriato parlare di clan o gruppi.

Il tribalismo così inteso ha facilitato la sopravvivenza e l’incremento demografico di intere comunità, e in quanto tale si è rivelato un tratto evolutivamente vantaggioso che è entrato a far parte del patrimonio di Homo sapiens. Dal punto di vista neurale, alcuni studi indicano la presenza di circuiti cerebrali specifici che si attivano, generando un’emozione negativa in risposta a informazioni che contraddicono i valori della propria tribù di riferimento, e che questi circuiti sono legati alla rappresentazione di sé. Il cervello dunque protegge la propria identità per evitare che venga intaccata dalle nuove informazioni, e tenta di integrarle nella propria visione del mondo modificandone l’interpretazione.

Il tribalismo, quando è sotto controllo, contribuisce alla coesione e al mantenimento dell’identità sociale del gruppo. Ma diventa pericoloso quando, partendo dal presupposto che i propri valori siano migliori di quelli delle altre tribù, si tenta di imporli su di esse – un atto impositivo che ha di per sé un’impronta aggressiva, viscerale, anche quando lo si vuole mascherare da razionalità. Come sottolinea Robert Reich, “ogni tribù ha le sue idee contrastanti tra diritti e libertà, ognuna ha i suoi totem e demoni, la propria versione della verità e i propri media che confermano le sue credenze”. Non è semplice rendersi conto che in qualunque battaglia ideologica vi è una componente irrazionale, e che soprattutto in presenza di informazioni incerte e complesse è l’ideologia che tende a dare forma ai fatti, invece che il contrario. È un rischio a cui siamo sempre stati esposti, e le “nuove” (che ormai nuove non son più tanto) tecnologie non hanno fatto che acuirlo: da una parte aumentando la quantità di informazioni accessibili e di connessioni tra utenti, e dall’altra personalizzando i contenuti da presentare all’utente.

Il nostro cervello infatti non ha una potenza di calcolo illimitata; può gestire una quantità colossale di informazioni e relazioni, ma non infinita. Una volta che il numero di informazioni ricevute e di connessioni con altre persone supera un certo limite, per il cervello umano è più conveniente cominciare a categorizzarle tramite stereotipi, con il risultato di semplificare forzosamente la complessità di tutto ciò che si trova al di fuori della propria bolla. Questo concetto è stato illustrato per le relazioni sociali da Robin Dunbar ed espanso da Malcolm Galdwell nel suo libro Il punto critico; altre indagini dimostrano come il sovraccarico informativo peggiori la qualità delle decisioni prese.

La personalizzazione dei filtri di ricerca e di contenuti presentati agli utenti, tipica dei motori di ricerca più utilizzati e dei social media, permette di fatto all’utente di delegare a dei software la selezione delle informazioni rilevanti, che saranno quelle più affini alle sue preferenze. Un effetto collaterale secondario, ma che rischia di accentuare l’impressione che lo stile di vita e i valori della propria tribù siano superiori a quelli delle altre. Anche nei confronti della propria tribù, infatti, l’individuo ha una visione archetipale. Non potendo conoscerne personalmente tutti i membri, li sostituisce con un’identità astratta e idealizzata.



Le derive di questa visione tribù-centrica sono note: dal razzismo, per cui la nostra etnia è migliore della loro, ai genitori che disconoscono i propri figli se questi fanno coming out o se sposano un individuo che professa una variante diversa della stessa religione, per arrivare alla negazione delle evidenze scientifiche sui cambiamenti climatici, sull’evoluzionismo o sui vaccini, se queste mettono in discussione le credenze tribali, siano esse rappresentate da una linea politica, da una fede religiosa o da una teoria del complotto. La convinzione di essere gli unici in possesso della Ragione e in grado di prendere decisioni per tutti porta ad auspicare la revoca dei diritti altrui: diritto di parola, di voto, di protesta, di coniugio, di genitorialità, di sopravvivenza.

Ma quindi, poiché arroccarsi in tribù è un nostro tratto evolutivo, il conflitto è ineluttabile? La storia sembra suggerire che il tribalismo abbia subito numerose sconfitte nel mondo occidentale, almeno sulla carta: l’accesso all’istruzione universitaria da parte di classi sociali ritenute inferiori, la fine dell’apartheid, l’ottenimento del diritto di voto da parte delle donne, la depenalizzazione dell’omosessualità, la libertà di culto religioso e via discorrendo. Sono dunque esistiti dei movimenti, delle personalità o dei gruppi di pressione capaci di creare un terreno adatto all’integrazione delle differenze a livello sociopolitico, invece che alla loro esasperazione.

Ma si tratta di risultati che non possiamo dare per garantiti. Il razzismo, il classismo, il sessismo (da ambo i lati), il moralismo giudicante permangono, mascherando la propria volontà di prevaricazione con razionalizzazioni e dietrologie sempre nuove. D’altro canto l’oppressione delle minoranze, i genocidi, le guerre civili e il terrorismo continuano tuttora nel mondo, anche se ne restiamo colpiti solo quando ci capitano in casa e minacciano il nostro stile di vita e le nostre libertà. I processi di integrazione prevedono un cambio di mentalità cumulativo su tempi lunghi, che procede a ritmi diversi in luoghi diversi, e che in periodi di crisi e di emergenza retrocede.

La maggior parte della cognizione umana si svolge a livello inconscio, ed è guidata, prima che dalla necessità di salvare il mondo, da quella di salvare se stessi e sopravvivere. Più ci si sente minacciati, più si difende la propria tribù, aspettandoci che ci tenga al sicuro. In queste circostanze la comunicazione si allontana dal fine persuasivo per divenire autoaffermazione ed esaltazione del proprio gruppo di appartenenza e della sua ideologia. Per esempio, difficilmente di questi tempi si può impostare un discorso sereno sulla discriminazione razziale, e le politiche che ne scaturiscono sono perlopiù dettate dai pregiudizi, in un senso o nell’altro, più che dalla ragione.

Lo stesso World Wide Web, che dovrebbe esporci a realtà distanti e differenziate, rischia di creare nuove solitudini frammentando il nostro senso di identità, ma può allo stesso tempo fornire un modo discreto ed efficace di cercare una comunione, una struttura, una rete di contatti, una sicurezza emotiva che permettano di comunicare e di essere capiti. Il contrario del villaggio globale che molti si aspettavano inizialmente.

Una volta stabilito che ogni tribù considera i propri sistemi di valori come quelli migliori in assoluto, dobbiamo dunque arrivare alla conclusione di un relativismo totale? Ovviamente no. Vi sono ideologie intrinsecamente oppressive e persecutorie (si potrebbe dire “più tribali” di altre), così come vi sono sistemi di pensiero pseudoscientifico su cui si basano teorie del complotto e forme diverse di ciarlataneria. A seconda poi del contesto storico e culturale di un determinato posto, esistono politiche più o meno adeguate.

Ma trovarsi dalla parte del giusto (ammesso che esista) non ci mette al riparo dalle derive del tribalismo se non siamo a nostra volta in grado di esercitare il pensiero critico (al quale sarebbe vitale essere educati fin dall’infanzia) e se non cerchiamo di evitare le categorizzazioni a priori. Cominciare a venerare dei totem, invocare azioni violente e coercitive nei confronti dell’altro, forzare l’interpretazione della realtà perché il fine giustifica i mezzi, sono tutti segnali che ciò che ci differenzia dall’altro è la tifoseria, ma non il modo di pensare. 

Quando si passa dalla critica all’etichettatura, dimenticando che chi abbiamo davanti è una persona a quattro dimensioni e la si riduce a un bit le cui uniche varianti sono dentro/fuori dalla tribù (e quindi dalla Ragione), si rischia di perdere di vista il discorso specifico su cui si dibatte e di tirare in mezzo tutti gli stereotipi che l’etichetta si porta, andando in alcuni casi a sminuire istanze sensate e legittime.

Così, chi esprime preoccupazione per i flussi migratori diventa razzista; il credente diventa bigotto; l’attivista diventa una zecca rossa; l’onnivoro diventa un assassino; l’antivaccinista e il dubbioso diventano pessimi genitori a tutto tondo; e chi sostiene che la politica non si fa sulla base della sola scienza diventa un nemico della Ragione.