grande guerra

Che non fosse un momento semplice per l’informazione si sapeva. Al momento storico di crescente sfiducia nella comunicazione istituzionale e negli organi di informazione mainstream, si sovrappone una crescente difficoltà di produrre giornalismo di qualità, dovuta a un insieme di congiunture, tra cui la necessità di tener dietro ai tempi strettissimi dell’online e il moltiplicarsi di fonti gratuite e facilmente accessibili di notizie, spesso completamente prive di intermediazione e quindi di controllo. La linea di confine tra informazione, controinformazione, disinformazione (contenuti falsi diffusi deliberatamente) e misinformation (parola senza equivalente italiano che indica contenuti falsi disseminati da persone che li ritengono veri), almeno agli occhi del pubblico di fruitori, diventa sempre più confusa.

La competizione tra chi cerca spazio e visibilità, per se stesso o per le proprie idee, è chiaramente molto forte. In questo clima anche il confronto, di per sé necessario, tra chi fa informazione in modi diversi (giornalisti, divulgatori, debunker, esperti a vario titolo) può assumere occasionalmente toni più esasperati, fino ad arrivare a rivalse e personalismi che non vanno di certo a migliorare la serenità e lucidità di chi dovrebbe affrontare in modo comune sfide sociali e sanitarie continue, a dover denunciare un’emergenza in corso o a dover arginare allarmi procurati da emergenze fittizie.

In un’atmosfera già surriscaldata arrivano ad agitare ancora di più le acque i risultati della ricerca Debunking in a world of tribes, che analizza le interazioni sui social network di un ampio numero di utenti. Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS One, evidenzia un dato scoraggiante: i fruitori interagenti con pagine e siti di teorie del complotto da una parte e di informazioni scientifiche dall’altra non si sovrappongono, ma si dividono in modo tribale. I social network (e le piattaforme di ricerca in generale, come Google) non hanno creato questa polarizzazione, che è sempre esistita, ma ne esasperano l’effetto con degli algoritmi personalizzati di ricerca che presentano ai fruitori i contenuti più consoni alle loro credenze, rafforzando l’idea che queste siano condivise da molti.

Secondo l’analisi, le pagine di debunking non servono a “convertire” gli appartenenti alla “tribù” dei complottisti. I pochi che interagiscono con le fonti di informazione che smentiscono le proprie convinzioni lo fanno in modo negativo e, subito dopo, cercano di rafforzarle aumentando quantitativamente le interazioni con le fonti che le confermano.

Non è la prima volta che si parla di questa ricerca; i risultati preliminari erano già stati oggetti di articoli pubblicati tra il 2015 e il 2016. La reazione dei maggiori debunker italiana non è tardata, tuttavia questa volta i toni sono più aspri, forse perché i debunker si sono trovati a dover difendere la loro posizione ancora una volta, forse perché di recente l’ambiente del giornalismo scientifico è spesso sotto attacco, con l’accusa di non aver prodotto risultati concreti contro le emergenze di salute in atto (come il calo della copertura vaccinale o la diffusione di cure alternative); lo studio rappresenta una rivalsa per alcuni, che magari sono troppo lesti a concludere che “il debunking è inutile e dannoso”. Quasi a farlo apposta, gli informatori scientifici si sono tribalizzati e sono fioccate le interpretazioni della ricerca e la discussione dei suoi limiti a difesa della propria visione di comunicazione della scienza.

Non intendo fornire ulteriori interpretazioni, e per chi volesse approfondire rimando al profilo di Walter Quattrociocchi, uno degli autori della ricerca. Di due cose sono convinta: la prima è che andrebbero analizzare e comprese le ragioni di questo inasprimento generale dei toni, la seconda è che la semplificazione secondo cui “il debunking è inutile” è, come tutte le semplificazioni grossolane, sbagliata.

I complottisti convinti non si convertono, certo. “Chi è bianco rimane bianco. Chi è nero rimane nero. Ma chi è grigio è quello più facile da informare, anche perché, probabilmente, è lui stesso disponibile all’informazione e alla conseguente riflessione.” Così afferma Michelangelo Coltelli in un articolo dell’anno scorso sul suo sito BUTAC – Bufale un Tanto al Chilo. Naturalmente per parlare con chi è grigio, bisogna “parlare grigio”, evitando gli estremi. La questione sembra chiara anche a Paolo Attivissimo, che sempre l’anno scorso, in una intervista rilasciata a La Stampa insieme a Coltelli e David Puente, si è dichiarato d’accordo con l’idea che i debunker aggressivi siano inefficaci.

Eppure questa idea è rimasta perlopiù sulla carta, dato che al contrario nella comunicazione stessa sembra aver preso piede una estrema polarizzazione, specialmente nei temi di salute, che spinge la realtà su toni di bianco e nero, che usa toni forti e frecciate sarcastiche nei confronti non solo dei provocatori, ma anche dell’utente medio sprovveduto o anche di chi, facendo riferimento a una ricerca trentennale in comunicazione della scienza e del rischio, osa mettere in discussione l’atteggiamento e la parola ex cathedra dell’esperto.



Questo senza che nel frattempo i debunker siano intervenuti in modo incisivo per dissociarsi dagli approcci più arroganti, o per difendere la professionalità dei comunicatori scientifici di professione, che secondo alcuni non svolgerebbero alcun ruolo utile nella pratica. Ma lo studio dell’impatto della comunicazione in una società democratica procede lentamente, per prove ed errori in una realtà complessa, e difficilmente si ottengono risultati e ricette universali immediatamente applicabili; l’efficacia si può giudicare solo sul lungo periodo. Un tipo di complessità che, guarda caso, è analogo a quello che si riscontra nei settori di punta della ricerca scientifica.

Non stupisce che la risposta a caldo all’uscita dello studio di Zollo et al. risentisse di questo clima di tensione. Non può nemmeno stupire l’apparente irragionevolezza di chi si è affrettato a dire che “il debunking è inutile” dato che proprio come afferma lo studio siamo tutti vittima degli stessi processi emotivi e della stessa ricerca di conferme alla nostra visione del mondo. Occorrerebbe innanzitutto disinnescare l’aggressività del dibattito, proprio andando a “rompere le bolle”, adoperandosi per creare un terreno d’azione comune che permetta, se non di evitare del tutto i contrasti, di usarli in modo costruttivo, riconoscendo il contributo di ognuno senza partire dal presupposto che le critiche siano motivate da invidia o ripicche invece che da ragioni sensate.

D’altro canto io preferirei davvero che chi ha avuto la passione per fare debunking fino a questo momento continui a farlo. Perché anche se le conversioni sono poche e anzi i complottisti ne escono più convinti di prima, i siti di debunking sono una sicurezza per chi ha voglia di verificare la credibilità di una notizia, ma ha poco tempo. Ad alcuni l’immagine dei siti di debunking come un database di informazioni organizzate e pronte all’uso e consumo può sembrare riduttiva, ma non è così: è una manna per fornire un’interpretazione coerente e logica dei fatti corredata da fonti affidabili e da dettagli esaustivi a chi li richiede o al nostro conoscente che, in buona fede, condivide una notizia senza averla verificata.

Inoltre il lavoro di ricerca implicato in molte opere di debunking ha come effetto collaterale quello di illustrare aspetti e dettagli interessanti sul tema trattato, e di inserirli in un contesto narrativo che ne facilita la comprensione (si pensi ai dettagli della missione lunare che sono stati delucidati dimostrando l’infondatezza del negazionismo lunare). Di certo, richiedono sufficiente attenzione e curiosità da parte del lettore, ma possono essere una fonte di curiosità molto ricca e stimolante. Nel caso di molti comunicatori scientifici, il debunking è un primo spunto e una tappa quasi obbligata del proprio percorso professionale.

Di certo, una parte sostanziale della cattiva informazione circolante è messa in circolo dagli organi di informazione mainstream, come stampa e televisione. La verifica dei fatti e delle fonti (fact checking) dovrebbe essere una fase obbligatoria inclusa nel giornalismo vero e proprio, che controlla la veridicità delle informazioni fornite prima della pubblicazione; ma questo non succede. Di fronte a un ordine dei giornalisti assente e a un’economia dell’acchiappaclic, ha più senso lasciare il fact checking agli altri. Tutto sommato, è una soluzione che accontenta tutti; il giornalista che distorce la notizia per attirare il pubblico online ha tutto l’interesse che una smentita arrivi a fornirgli altri potenziali clic. Eppure, in assenza di fact-checking intrinseco e di provvedimenti disciplinari efficaci, l’alternativa, ossia rischiare che la cattiva informazione resti senza smentita e diventi virale, sembra davvero troppo da proporre.

A parte questo dilemma, rimane il rischio che prima o poi il debunking tenda ad accompagnarsi a toni aggressivi e a una derisione sistematica di coloro che si trovano al di fuori della bolla, perché è ciò che dentro la bolla richiama più attenzione. E se pure l’autore rimane ragionevole e pacato, è molto probabile che i suoi seguaci alzino i toni e facciano ampio sfoggio di disprezzo nei confronti dell’ovvia inferiorità culturale e intellettuale dell’”altro”, alimentando a loro volta la polarizzazione. Come gestire i propri seguaci e i loro commenti è senz’altro a discrezione del singolo; trovo però ingenuo pensare di potersene dissociare del tutto, specialmente se si ha una grande visibilità.

Non saprei dunque dire se sia il debunking in sé a essere inutile e controproducente, quanto piuttosto l’atteggiamento cattedratico e saccente che spesso, ingiustamente o meno e non necessariamente per colpa del singolo autore, vi viene associato. Al di là di questo non sarebbe una cattiva idea ammettere che ciò che facciamo, anche se fatto bene e con soddisfazione, può non dare i risultati attesi. Ma non significa che si debba smettere. Se ne può approfittare per trarre un bilancio, chiarirsi obiettivi e motivazioni, e nel frattempo per curiosità vedere che succede se, sperimentando, si prova a bucare le bolle tra la propria tribù e le altre.