vaccino

Il recente decreto sui vaccini emanato dal governo, che segue di qualche mese un’analoga decisione della Regione Emilia Romagna, ha riacceso – se non altro sui social network – il dibattito sulla necessità delle vaccinazioni. In realtà sappiamo che, scientificamente parlando, non sussiste alcun dibattito.

La comunità scientifica è concorde sul fatto che il vaccino sia uno strumento sicuro – sicuro, naturalmente, quanto possono esserlo i farmaci in generale, dove il rischio di reazioni avverse, per quanto piccolo, non è mai uguale a zero – mentre il collegamento tra vaccini e autismo, tumori, o altre malattie non è più credibile della Terra piatta. Contro il proliferare di tesi prive di supporto empirico e i conseguenti movimenti anti-vax, la paziente opera di spiegazione e divulgazione di esperti quali Roberto Burioni o, anche qui su Strade, da Salvo Di Grazia e Andrea Grignolio è senz’altro benvenuta. Ma su questo come altri argomenti di interesse pubblico il rischio è quello di pensare che il dato scientifico su un determinato problema sia tutto ciò che occorre per prendere decisioni sulla sua soluzione.

Roberto Burioni ha commentato la recente estensione dell’obbligo vaccinale nel modo seguente: “Perché in Italia le vaccinazioni sono obbligatorie e altrove no? La risposta è molto semplice: perché altrove non sono così stupidi da non vaccinare i loro figli. Insomma, in nessun paese è vietato fare sedere il proprio figlio su di un fornello a gas acceso. Se qualcuno in Italia è così cretino da farcelo comunque sedere ci vuole una legge per difendere il bimbo dalla follia del genitore”.

Parole del genere sembrano presupporre una concezione del tutto meccanica dell'agire umano, secondo la quale i comportamenti consentiti sono automaticamente più seguiti di quelli vietati. Eppure non sempre è così. Sappiamo ad esempio che non necessariamente il consumo di una sostanza stupefacente aumenta in condizioni di legalità. Un’altra possibilità è che intervenendo su un dato comportamento si agisca indirettamente su altri, generando effetti negativi imprevisti.

Cercare di prevedere le conseguenze di un intervento pubblico è compito dei policy analyst ed è operazione che richiede specifiche competenze di scienze sociali. Ciò non è meno vero quando l’esame di una certa policy muove da un problema, o da un dato, certificato dalle scienze naturali, dalla medicina o altre discipline che non si occupano di relazioni sociali.

Secondo le guidelines dell’OECD su come regolare con efficacia (linee guida riprese da un po’ tutti i paesi avanzati, oltre che dalla letteratura scientifica in merito), nel processo di policy ci sono diverse fasi.

La prima concerne la definizione del problema: in questo rileva l’opinione, e i dati, degli esperti nella comunità scientifica. Nel nostro caso, se c’è un calo della copertura vaccinale, e se questo può avere conseguenze per la salute di terzi, sono cose che vanno chiesti ai pari di Burioni, senza dare ascolto alle percezioni, alle paure non supportate dai fatti, alle pubblicazioni non scientifiche. I problemi si definiscono sui fatti accettati dalla comunità scientifica, e da questo punto di vista è vero: la scienza non è democratica.

Vi è però una seconda fase del processo di policy, quella in cui, una volta definito un problema e supportata con i dati l’ipotesi che esso sia in crescita e comporti costi per la collettività, si vagliano i costi e i benefici di tutte le possibili proposte di policy per risolvere il problema. È importante che siano più d’una, e che sia sempre considerata anche l’ipotesi “non intervenire”. Il processo di analisi costi-benefici è multidisciplinare, ma fondamentale è la comparazione con la letteratura raccolta dalle scienze sociali in merito ai diversi strumenti regolatori. Anche in questo caso la scienza non è democratica, e non ci si può aspettare che un medico possa dare un parere da esperto su questo tema, più di quanto un economista o un policy analyst – pur conoscendo tutte le statistiche e le best practice necessarie a una gestione efficiente dei sistemi sanitari – possa avere un’opinione qualificata sulla scelta se operare o no un tumore.

Ora, può sembrare inutile pignoleria, davanti all’emergere di un problema sociale, ma è importante osservare che l’individuazione del problema e la selezione dello strumento con cui risolverlo – se ce n’è uno – sono due processi logici distinti. Ed è importante ricordare gli aspetti metodologici, perché servono ad assicurarsi che la regolamentazione risolva problemi reali, e serve a dare un argine alla tendenza ipertrofica dello stato regolatore.

Davanti a quella che i cittadini – o alcuni gruppi di pressione – percepiscono come una crisi, la reazione naturale del politico è dare una risposta. Qualsiasi risposta, non necessariamente una in grado di migliorare la situazione, ma necessaria per farli sembrare attivi agli occhi degli elettori preoccupati. Per questo da cittadini dobbiamo imparare a distinguere la domanda “c’è effettivamente un problema?” da “qual è la soluzione in grado di ridurre quel problema senza che i costi siano superiori ai benefici?”. In merito a entrambe le questioni dobbiamo chiederci cosa dicono gli esperti, con la consapevolezza che si può trattare di esperti diversi.

L’anidride carbonica sta surriscaldando il clima terrestre? La maggior parte degli esperti dice di sì. Questo non implica che la soluzione sia facile: non necessariamente basta mettere un tetto alle emissioni di CO2 per avere un ambiente più sano. Una data fonte energetica risulta particolarmente inquinante? Occorre che lo Stato sussidi la ricerca di fonti energetiche rinnovabili. Insomma, è sufficiente prevedere l’effetto immediato di un intervento, e il gioco è fatto.

Tutto ciò non significa che l’obbligo vaccinale sia la strada sbagliata. Significa però che non necessariamente sia quella giusta, e che il problema della copertura insufficiente può richiedere soluzioni diverse, a seconda di quali siano le ragioni del calo della copertura. Il fatto che nessun altro paese sviluppato abbia reso obbligatorio un numero così ampio di vaccini dovrebbe quantomeno indurre il sospetto che, dove gli studi sono stati fatti e le leggi costruite sulla base dell’analisi costi-benefici, l’obbligatorietà di dodici vaccinazioni non è stata considerata la policy migliore.

In questo studio si osserva ad esempio che affinché l’obbligo vaccinale sia efficace è necessario, tra le altre cose, che le persone siano disposte a farsi vaccinare. Esenzioni all’obbligo possono rendersi necessarie per evitare reazioni negative dal pubblico che possono tradursi in una minore fiducia nei confronti della classe medica. E - sempre parlando di fiducia - l'obbligo può determinare una maggiore responsabilità dello Stato nel comunicare e garantire la sicurezza dei vaccini davanti all'opinione pubblica. Ciascun contesto implicherà insomma conseguenze differenti.

Per stabilire un’adeguata risposta di policy, dunque, occorre anzitutto conoscere bene le cause che hanno determinato il calo della copertura. Questo studio fornisce ad esempio un elenco di possibili soluzioni, soppesate in base alle cause sociali della non-vaccinazione. Se queste risiedono in inefficienze del sistema sanitario – come la difficoltà nel fissare un banale appuntamento – l’obbligo potrebbe non essere la prima via da percorrere.

Questo non implica che gli esperti debbano decidere la politica: in democrazia, ed è uno dei suoi limiti, l’opinione dell’analfabeta funzionale o dell’esaltato vale quanto quella dell’elettore informato. Ma la politica, anche nella sua più ottimistica e idealizzata accezione, dovrebbe limitarsi a stabilire i fini (nel nostro esempio: copertura del vaccino), non gli strumenti con cui ottenerlo (obbligo vaccinale). E, nel ciclo di policy, bisogna ricorrere alla scienza per rispondere a entrambe le domande.