ulivi puglia

Avrà un bel da fare adesso la Procura di Lecce per proseguire ancora sulla propria strada, quella del sequestro degli ulivi pugliesi e della sospensione del piano di emergenza, concordato con l’Efsa e l’Ue, per evitare che Xylella si diffonda ancora di più. 

Avrà un bel da fare perché dovrà spiegare bene, e con dovizia di particolari, la storia dei “perlomeno nove ceppi” di Xylella (con abbondanza di punti esclamativi come da decreto di sequestro) che costituisce la prova - o, meglio, il sospetto - principale per il provvedimento adottato. E dovrà far capire alla Puglia, all’Italia e al resto d’Europa perché abbiano sbagliato non solo i ricercatori del Cnr finiti sotto indagine, ma anche perché si stiano sbagliando i ricercatori che il 2 marzo hanno pubblicato sull'European Journal of Plant Pathology uno studio che conferma esattamente quello che sapevamo prima che la magistratura intervenisse.

Questo lavoro dà un ulteriore supporto all’ipotesi corrente che materiale vegetale infetto proveniente dall’America Centrale sia responsabile dell’attuale epidemia nel sud Italia, che dipende da un singolo genotipo”, scrivono Loconsole, Saponari, Boscia, D'Attoma, Morelli, Martelli e Almeida nel loro articolo. Tradotto, significa che anche le ricerche più recenti sugli ulivi pugliesi - condotte su piante provenienti dalle province di Lecce e Brindisi - confermano che l’infezione deriva da un solo ceppo di Xylella e non da nove e che quel ceppo (ST53) è lo stesso che si trova nell’America Centrale, in Costa Rica. Ma l’articolo dice ancora di più: delle altre cinque specie di piante infette analizzate (Xylella non se la prende solo con gli ulivi), esattamente cinque erano infette dal ceppo ST53.

La vicenda ha dei connotati importanti e un bagaglio di conseguenze gravissimo: la Procura non solo sta basando la propria azione su argomentazioni che non sembrano riuscire a passare neppure il vaglio della logica (oltre a essere infarcite di complottismo), ma lo sta facendo anche in contrasto con qualsiasi evidenza scientifica finora disponibile, sulla base di una perizia che in pochi hanno visto e che non è stata ancora resa pubblica, nonostante contenga - almeno in astratto - la chiave per capire cosa stia accadendo.

Il problema non è che i magistrati indichino eventuali errori nelle ricerche sull’epidemia di Xylella in Puglia e nelle conseguenti misure emergenziali adottate, ma che lo facciano senza rendere pubblici metodi, strumenti, dati e ragionamenti. Su Xylella siamo così davanti a un conflitto di competenze tra campi diversi, in cui la conoscenza scientifica e i suoi metodi di produzione giocano un ruolo cruciale in una situazione delicatissima che, fino a prova contraria, richiede prudenza, collaborazione e condivisione del sapere.

Il danno è già molto grave sul piano economico, sociale e sanitario - mentre il tempo passa il contagio si diffonde, mettendo a repentaglio l'olivicoltura di aree sempre più estese. Ma anche sul piano personale la faccenda assume contorni moralmente inaccettabili: dieci persone, scienziati e funzionari che si sono occupati a vario titolo dell'emergenza, sono oggetto di inchiesta per “diffusione colposa di malattia delle piante, inquinamento ambientale, falso materiale e ideologico in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali”. Accuse gravissime, originate da ipotesi che risultano, alla luce di tutte le evidenze scientifiche disponibili, completamente prive di fondamento. Una ragione in più per chiedere, con ancora più forza, che quella perizia venga resa pubblica.