Le accise non servono a scoraggiare il consumo di prodotti dannosi per la salute. Sono un pretesto, banale quanto efficace, per fare cassa nelle situazioni di emergenza. Basta non prendersi in giro.
Nell'ultimo mese il governo italiano ha rimesso mano alle accise. Ovviamente per aumentarle. Nel mirino, stavolta, la birra, le bevande alcoliche a bassa gradazione (vino escluso, per fortuna) e le sigarette elettroniche. E gli aumenti varati non sono per niente cosa da poco.

L'accisa sulla birra passerà dagli attuali 2,33 a 3 euro per ettolitro entro il 1 gennaio 2015. Dallo scorso 1 ottobre è già entrato in vigore un primo scatto da 2,33 a 2,66 euro. Il prossimo scatto, che porterà l'aliquota a 2,70 euro, è fissato al 1 gennaio 2014. Quando l'aumento sarà a regime, cioè nel 2015, tenendo anche conto dell'aumento IVA, pagheremo allo stato quasi il 50 percento del prezzo finale del prodotto. In altri termini, lo Stato berrà metà della mia birra.

Le sigarette elettroniche hanno ricevuto una vera batosta. Viene estesa alle ricariche di nicotina, ai dispositivi elettronici, a tutte le loro parti componenti e accessorie, l'accisa vigente per i lavorati del tabacco, dei quali le e-cig vengono a tutti gli effetti considerate sostituti. In sintesi, dal 2014 gli “svapatori” pagheranno quasi il 60 per cento di accisa, che sommato all'IVA si traduce in un aumento di circa il 75 percento del prezzo di vendita dei prodotti del fumo elettronico. Anche qua, insomma, lo stato fumerà tre quarti della mia sigaretta elettronica.
 
La pressione tributaria su tutti i prodotti soggetti ad accisa ha ormai raggiunto livelli ragguardevoli. È sufficiente pensare che il gettito complessivo derivante da tutte le accise in Italia è di circa 45 miliardi di euro, che sommato al corrispondente gettito IVA rappresenta il 6 per cento delle entrate pubbliche.
 
Tutti sappiamo che lo stato continua a fare leva sulle accise ormai nell'unico, palese, intento di fare cassa. Eppure, ogni volta, l'aumento delle accise viene accompagnato dalla stessa melensa retorica: questi prodotti procurano danni a salute, questi danni si riflettono in una maggiore spesa sanitaria pubblica e, siccome se ne deve contrastare l'abuso, tassarli è una cosa, come dire, quasi indolore. Soprattutto se il gettito che se ne ricava viene destinato dallo Stato a finalità “meritevoli”. 
 
È il mantra che da sempre si accompagna alle accise: lo stato realizza una serie di cose (buone e giuste) facendole pagare ai consumatori (solo quelli brutti e cattivi, è ovvio) quando acquistano prodotti che fanno male. Così li protegge da se stessi facendo oltretutto risparmiare ai cittadini il costo delle cure sanitarie di cui costoro avrebbero bisogno se si ammalassero a causa dei loro eccessi. È il medesimo mantra che accompagna da qualche tempo la proposta di applicare una accisa anche sulle bevande zuccherate, sulle merendine dei bambini e più in generale sul cosiddetto junk food.
 
Che l'abuso di tabacco e alcolici sia un problema per la salute non è in discussione. Il tema da discutere, però, è se tassare a oltranza alcolici e tabacchi (e ora anche le sigarette elettroniche, che comunque troppo male non fanno) sia veramente il modo migliore per limitare le esternalità negative e i danni derivanti dal consumo eccessivo di questi prodotti, o se piuttosto si preferisca tassare pesantemente beni a domanda fortemente anelastica, proprio perché meno a rischio di subire forti contrazioni nei consumi.
 
Personalmente propendo per questa seconda ipotesi. Per quanto alti, le tasse non eliminano e neppure limitano l'impatto negativo dell'abuso di alcolici sulla spesa sanitaria pubblica. In altri termini, penso che il legame tra abuso di alcolici e spesa sanitaria esista, ma che l'utilizzo di questo argomento per giustificare la tassazione esasperata di questi prodotti sia pretestuoso.
 
Guardiamo al mercato degli alcolici. I consumatori di alcol si dividono in due grandi categorie. Nella prima ci sono i consumatori moderati. Acquistano il prodotto per il piacere di degustare, non sono inclini al consumo eccessivo, non sono dipendenti dall'alcol e quindi l'elasticità della loro domanda è abbastanza elevata (alcuni studi empirici la collocano intorno a 1). Il secondo gruppo è quello degli “incalliti”. Questi, è vero, tendono ad abusare dell'alcol e l'elasticità della loro domanda è molto bassa o addirittura nulla. Orbene, la quasi totalità degli effetti negativi collegati al consumo di alcol, sia in termini di maggiore spesa sanitaria, sia a danno della sicurezza stradale, sono imputabili a questo secondo gruppo, che costituisce tra l'altro una parte consistente del mercato (circa il 10 per cento dei soggetti e oltre un terzo del consumo totale di alcolici).
 
Se il mercato è proprio così come lo abbiamo descritto, aumentare l'accisa sull'alcol fa diminuire il consumo del primo gruppo ma non quello del secondo. In altri termini una parte dei consumatori moderati sopporterà l'aumento di prezzo e continuerà ad assaggiare alcolici, gli altri rinunceranno ad acquistarli.  In poche parole “abbozzeranno”, che è un modo non ortodosso per dire che subiranno una riduzione della propria “rendita del consumatore”. Tutti gli incalliti, invece, continueranno a consumare quantità pressoché immutate di alcol, con la sola differenza che acquisteranno sul mercato nero prodotti che costano meno e di qualità scadente. Questo fenomeno è noto come “scivolamento” (trading down). Chi consuma in eccesso continua ad abusare indipendentemente dall'aumento del prezzo. Lo fa producendo danni ancora più gravi alla propria salute e con un impatto potenzialmente ancora più negativo in termini di maggiore spesa sanitaria pubblica. In sintesi, è probabile che a seguito di un aumento dell'accisa la domanda complessiva di alcolici si riduca, ma questo non deve trarre in inganno. Nelle condizioni descritte la tassazione determina un effetto esattamente contrario a quello desiderato.
 
Per i tabacchi valgono considerazioni simili a quelle degli alcolici. Anche qua, da un lato, ci sono fumatori moderati, più sensibili alle variazioni di prezzo e, dall'altro lato, consumatori incalliti con domanda rigida. E con l'aumento dell'accisa, e del prezzo, i consumatori incalliti “scivolano” verso prodotti di qualità più bassa perché costano meno. Se negli ultimi anni il consumo di tabacco trinciato grezzo è cresciuto, significa che il pacchetto di sigarette costa sempre di più e i fumatori preferiscono confezionarsi le sigarette per conto proprio. E ciò anche se i trinciati, soggetti a una regolamentazione meno stringente degli altri prodotti più raffinati, contengono più catrame delle sigarette, e perciò sono più dannosi per la salute. Peraltro, nel caso dei tabacchi, l'effetto di scivolamento si traduce anche in un massiccio ricorso al mercato illegale, dove gli “incalliti” continueranno a soddisfare il proprio desiderio di fumare acquistando prodotti di provenienza tutto sommato incerta e correndo maggiori rischi per la salute. 
 
Anche qui, dunque, l'aumento di accisa riduce la domanda di sigarette sul mercato legale. Ma come contropartita si avrà un aumento della domanda sul mercato nero. Anche per i tabacchi la tassazione rischia di produrre un risultato opposto a quello desiderato.
 
Insomma, quasi tutti gli stati moderni utilizzano la tassazione come strumento per correggere le esternalità negative causate dalla produzione o dal consumo di certi prodotti con l'intento, meritevole, di limitare i danni che ne derivano. I risultati, però, non sono all’altezza delle aspettative. Il livello attuale delle accise non è il risultato di valutazioni di efficienza tributaria, né tantomeno di scelte ponderate, ma piuttosto di aumenti decisi in occasione di piccole e grandi emergenze finanziarie e tragici eventi inaspettati. Aumenti che avrebbero dovuto durare poco, giusto il tempo per coprire il costo dell'emergenza. Ma nel frattempo attorno a quella spesa emergenziale si consolidano interessi e nidificano rendite che nessuno avrà poi il coraggio di toccare. Di qui, la regola aurea delle accise: l'emergenza cessa, l'accisa rimane. Una regola che ha di fatto guidato fino a oggi le imposte di consumo, corollario della consuetudine perversa secondo la quale le entrate fiscali non si giustificano se non con l’inseguimento disperato della spesa pubblica. Se c'è da pagare pagheremo, ma almeno non pigliamoci in giro.