Un percorso iniziato un ventennio fa e mai terminato, una gestazione interminabile che ha lasciato incompiuta l'impalcatura istituzionale del nostro paese e aperto enormi contraddizioni. E' la storia del federalismo all'italiana, a cavallo tra l'ideologia e la realtà.

salerno - Copia

Pensando ai tentativi di trasformazione federalista su cui da tempo si lavora Italia, è sintomatico che vengano in mente, più i che risultati delle riforme, alcune suggestioni letterarie. Il mito di Sisifo, la tela di Penelope, il personaggio di Musil che si sforza di organizzare l’anniversario del regno di Francesco Giuseppe senza mai concludere nulla. O Rutilio Namatiano nelle prime pagine del suo De Reditu, quando ammette che si è talmente riflettuto, ipotizzato e scavato nei pensieri, da rimanerne prigionieri senza più la forza di fare.

Ormai è quasi un ventennio che il cantiere federalista è aperto. Basterebbe solo questa considerazione a lanciare l’allarme: l’impalcatura costituzionale non può restare incompiuta così a lungo, i rapporti tra Istituzioni di governo non possono svolgersi in deroga o lasciati aperti all’interpretazione e improvvisazione. Oggi, se si traccia un bilancio, la conclusione è che questa esagerata gestazione non sia servita neppure a mettere a fuoco soluzioni. Non abbiamo imboccato nessuna strada. Non si sa che forma di Stato abbiamo. Arrivato per completare e ammodernare la Costituzione del 1948, il fervore federalista si è attorcigliato su se stesso. Il caso della sanità e delle Regioni è emblematico, anche perché lì ci si è spinti più avanti; ma il giudizio non cambia per la riorganizzazione delle funzioni dei Comuni e delle Province, spesso con aree di sopvrapposizione tra loro e con le funzioni delle Regioni.

Prima di ripercorrere in estrema sintesi le tappe, è necessaria una premessa. La parola “federalismo” si è caricata negli ultimi tempi di significati miracolosi, quasi potesse essere una scorciatoia per la risoluzione di tutti i problemi del Paese. In realtà, se è vero che una spesa pubblica più efficace, efficiente e coerente con i bisogni dei territori aiuta le altre riforme strutturali, è vero anche il contrario. È difficile il passaggio al federalismo in un Paese che attende regole nuove per il mercato del lavoro e la contrattazione retributiva, è indietro sulle riforme dei mercati, ha accumulato deficit infrastrutturali, ha un welfare system da ridisegnare, nutre pretese di universalismo assoluto nelle prestazioni pubbliche senza curarsi di averne le risorse, manca ancora di un sistema di contabilità pubblica con regole condivise da tutti i territori e da tutti i centri di spesa. Da solo il federalismo, lanciato così nell’arena, non c’è la può fare. Forse è questo il vero grande insegnamento degli anni Duemila.

La prospettiva si era aperta in maniera giustamente prudente con le leggi “Bassanini” degli anni Novanta, che puntavano a semplificazione amministrativa e decentramento, per dare attuazione al principio di sussidiarietà senza però ampliare le sfere decisionali di Regioni e Enti Locali. In sanità, di pari paso alle “Bassanini”, giungevano, pur con luci ed ombre, l’aziendalizzazione e l’introduzione delle tariffe per le prestazioni (i Drg). Alla fine degli anni Novanta lo scoglio da superare era il finanziamento delle prestazioni al costo storico sganciato da qualunque considerazione di efficacia/efficienza. Il problema, evidente soprattutto in sanità, era in realtà comune ai bilanci di tutti i livelli amministrativi. Il finanziamento al costo storico implicava il ripiano ex-post delle perdite, vanificando sia gli sforzi delle leggi “Bassanini” sia quelli, specifici della sanità, dell’aziendalizzazione e dei tariffari.

Qui si è avuto un cambio di rotta netto, prima col D. Lgs. n. 56-2000 (il cosiddetto “Giarda”) e poi con la legge di riforma costituzionale del 2001. Prudenza e pragmatismo hanno lasciato il passo, nel caso del 56-2000, a un tentativo velleitario e mai entrato in funzione di parametrizzare tutti i fabbisogni efficienti di Regioni, Province e Comuni e, nel caso della riforma costituzionale, ad una accelerazione del federalismo, che da processo di decentramento e sussidiarietà è passato ad assumere connotati politici più profondi, con ampliamento delle sfere di autonomia decisionale delle Regioni e dei compiti operativi di Province e Comuni. Insomma, senza disporre di nuove adeguate regole di finanziamento e di responsabilizzazione nella spesa, si sono ampliate potestà e possibilità di spesa, con il risultato che, non solo non ci si è affrancati dal costo storico, ma il governo della spesa pubblica è diventato ancora meno trasparente e più complesso. È stata la sanità ad offrire gli esempi più lampanti, con sistematici sforamenti dei programmi di spesa senza che fosse possibile attribuirli a sottostime di fabbisogno, sprechi, malfunzionamenti dei mercati di approvvigionamento, dotazioni vetuste e insufficienti che si traducevano in più alta spesa corrente, etc.

Non siamo ancora usciti da queste contraddizioni. La Legge n.42-2009 ha provato a correggere gli errori del 56-2000 (tra l’altro di mezzo c’è stato un referendum costituzionale che mirava ad ampliare ancor di più le potestà legislative delle Regioni e che è stato respinto), ma il suo impianto non è scevro da contraddizioni, incompletezze e circolarità. Ha il pregio di aver adottato un approccio molto più concreto alla determinazione dei fabbisogni (i costi efficienti o standard), a partire dalle best practice già esistenti e imponendo che la sommatoria delle spese rispetti i vincoli macrofinziari; ma non si è ancora raggiunto un disegno operativo capace di assumersi gli oneri di governo. La decretazione attuativa della 42-2009 ha proceduto meccanicamente, gli ultimi atti in ordine di tempo arrivati a fine 2013, tra urgenze dovute alla crisi e cambiamenti politici che nel frattempo hanno modificato le priorità e portato il federalismo in secondo piano. Stupiscono non poco le dichiarazioni che annunciano suddivisioni del Fondo Sanitario Nazionale secondo le nuove regole, o che esprimono soddisfazione per la definitiva scelta dei benchmark di spesa per Province e Comuni. I criteri di governo della spesa pubblica non sono stati rinnovati, e l’unico cambiamento di rilievo è consistito nella stretta alle risorse disponibili a causa della crisi.

La verità è che, dopo anni di ipotesi e preparativi, la via italiana al federalismo è ancora tutta da individuare. È così persino in sanità, l’ambito a cui è stato dato più rilievo e anche più risonanaza mediatica. Per evitare i danni di una generale indeterminazione di Istituzioni, ruoli, responsabilità, si deve subito un bagno di realismo e di umiltà. Si ricominci a discutere di rapide e incisive semplificazioni amministrative, di riforme strutturali a livello Paese, di ammodernamento dei sistemi contabili e delle basi di dati, di decentramento cum granu salis supportato da regole semplici e inequivocabili sia per la perequazione tra territori sia per il rispetto da parte dei territori dei programmi di spesa. Con una prova del nove: qualcosa deve cambiare per qualcuno. Perchè si ha la netta sensazione che si sia discusso e ridiscusso tanto perchè alla ricerca della riforma perfetta che facesse stare meglio tutti e desse più risorse a tutti.