I grandi stabilimenti automobilistici che assorbono masse di occupati facendo da traino a interi territori appartengono alla storia. Nel doloroso divorzio tra la Fiat e l'Italia, c'è l'incognita di un Paese che non ha ancora trovato una strada per il futuro.

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In questi giorni si chiude un altro capitolo del lungo rapporto tra l'Italia e l'industria dell'automobile. Ogni storia, si sa, finche dura è fatta di alti e bassi, e l'ultimo decennio di quella tra l'Italia e la FIAT assomiglia molto a un lungo e doloroso addio.

Da una parte, l'azienda. Dopo dieci anni travagliati, conquista finalmente quella dimensione multinazionale e con essa quegli standard necessari a sopravvivere e assicurarsi probabilmente un futuro nel settore che più rapidamente di altri è stato investito dalla globalizzazione e dai cambiamenti nella geografia mondiale della produzione. Dall'altra parte, l'Italia. Un sistema economico che fatica a staccarsi da una visione datata, legata all'assetto novecentesco dell'industria automobilistica, quando gli stabilimenti nazionali delle automobili producevano per il mercato interno e quello europeo, entrambi in espansione. Gli anni in cui il settore dell'auto era il principale volano dell'occupazione, anche grazie all'indotto. L'epoca in cui una fabbrica di automobili garantiva occupazione e reddito per un territorio vasto.

I cambiamenti degli ultimi 30 anni (e quelli ancora in atto) hanno reso e renderanno sempre più obsoleta tale visione, meno adatta ad essere - come era - il presupposto per progettare il futuro dell'industria e dell'occupazione. Il driver principale (e anche il più noto) di cambiamento è l'evoluzione della domanda di automobili, anche e soprattutto sotto il profilo geografico. All'inizio del nuovo secolo, secondo un rapporto di KPMG, circa una automobile europea su dieci veniva venduta fuori dell'Europa. Oggi quasi una su due si vende fuori del Vecchio Continente. Secondo le previsioni, e per ovvie ragioni legate al ritmo di crescita del prodotto interno lordo e del reddito disponibile, il potenziale maggiore di domanda è localizzato, nell'ordine, nel Sud-Est asiatico (Cina e India in primis), nell'Est europeo e in Sud America. Entro non più di 3-5 anni volumi significativi della produzione di Cina, India, Russia e Brasile alimenteranno flussi sempre più consistenti di esportazioni all'estero.

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(fonte ANFIA)

In Europa la contrazione del mercato si accompagna a un persistente eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda. È soprattutto per questo che nel prossimo quinquennio si prevedono volumi di produzione e vendite ancora in calo nel Vecchio Continente, in particolare in Italia e Spagna. Peraltro, bisogna considerare che gli stabilimenti destinati a soddisfare il già basso potenziale di domanda nei paesi dell'Europa occidentale saranno per lo più localizzati nell'Europa centro-orientale, che alle condizioni attuali è considerato dagli investitori il migliore "hub" per penetrare i nostri mercati. La Germania rappresenta per il momento la sola possibile eccezione, tra i paesi "classici". È superfluo sottolineare che questo scenario europeo è condizionato pesantemente dal fattore dei costi d'impresa. Non esclusivamente il costo del lavoro, pur fondamentale, ma in generale i costi del "fare impresa" (quindi fisco, burocrazia, autorizzazioni, giustizia, sistema del credito). Per analoghe considerazioni, il miglior hub per penetrare i mercati del Nord America è ormai il Messico.

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(Fonte Banca Mondiale)

Un secondo importante driver è l'innovazione tecnologica, spinta in gran parte dall'esigenza di creare veicoli che consumino meno energia, sempre meno inquinanti e in grado di sfruttare al meglio le tecnologie digitali. Un terzo driver del cambiamento è l'innovazione dei prodotti, necessaria per adattare l'auto a contesti di utilizzo sempre più differenziati e dipendenti dai mercati di riferimento. Considerato che innovazione tecnologica e di prodotto richiedono investimenti specifici molto ingenti, compatibili solo con la scala e i volumi cumulati di produzione assicurati da un mercato in espansione, è chiaro che nemmeno questi due driver si muovono a favore del sistema Italia. E questo perché la nostra industria automobilistica, durante questo decennio difficile, al pari di gran parte dell'industria nazionale, non ha effettuato investimenti strategici in innovazione. La strategia di prodotto scelta da FIAT per l'Italia dopo la fusione con Chrysler - concentrare le produzioni sul segmento "premium", su prodotti che puntano a un design ricercato e marchi che si richiamano al made in Italy, destinati a segmenti di mercato più ristretti e profittevoli - è probabilmente la sola sostenibile alle condizioni attuali per il settore auto italiano.

Le implicazioni di questo scenario sono ovvie. La produzione di massa delle auto e i grandi stabilimenti che assorbono centinaia di migliaia di occupati, facendo da traino a interi territori, appartengono alla storia. Per il futuro dovremo abituarci all'idea di pochi stabilimenti di dimensioni ridotte e dedicati alla produzione di auto destinate ai segmenti alti. Insomma, qualcosa di molto vicino alla produzione di Ferrari e Maserati, e non gli stabilimenti che nella "golden age" dell'auto italiana furono della Uno o della Punto.

Sarà difficile vincere la sfida contro la disoccupazione nel nostro paese se continuiamo a illuderci con i modelli e le ricette del passato. L'industria dell'auto è soltanto l'esempio più eclatante, ma dinamiche analoghe sono vissute dall'industria degli elettrodomestici (vedi Electrolux). Alcuni settori del manifatturiero non potranno più contribuire alla creazione di occupazione di massa come fecero nella seconda metà del secolo scorso. Settori come quello dell'auto avranno bisogno di meno occupazione, ma probabilmente di figure più diversificate e diversamente qualificate. Una questione non certo secondaria in tutto questo, allora, è come dovranno cambiare il modello giuridico del mercato del lavoro e il sistema della formazione, per accompagnare (o almeno non ostacolare) la transizione verso il futuro.