Perché le medicine alternative non hanno valore scientifico ma sembrano funzionare? E perché riscuotono tanto successo? Il valore terapeutico della fiducia, tra effetto placebo e strategie di marketing.

Colonna nuvole

Più del 20% degli italiani utilizza prodotti omeopatici almeno una volta l’anno. Il 4,5% della popolazione li assume con cadenza settimanale o quotidiana, mentre l’80% sa di cosa si parla o comunque conosce l’omeopatia.

Sono i dati del sondaggio realizzato da Emg per OmeoImprese, la sigla che raccoglie le case produttrici nazionali, e i numeri parlano chiaro: la medicina alternativa è entrata nelle case, e nelle viscere, degli italiani. Con una promessa – esplicita nella comunicazione di Boiron, una delle aziende leader del settore: un altro modo di curarsi è possibile.

Non solo. Secondo l’Associazione per la Medicina Centrata sulla Persona Onlus, accedere a metodologie di cura alternative non è una mera possibilità, ma deve diventare un vero e proprio diritto. Perché, come suggerisce la petizione rivolta al Senato, è tempo di dire no al conformismo in medicina: il pensiero scientifico non basta più, per tutelare la propria e personale salute è ammesso anche quello magico. Perché il benessere non è una dimensione puramente fisica, ma olistica: riguarda ogni aspetto della nostra persona, organi, tessuti, midollo, pensieri e psiche.

Così, in sostanza, pare leggendo le parole della medicina alternativa – la CAM, in inglese, “complementary and alternative medicine”, composta, secondo Adrian Furnham, dello University College London, almeno dai “big six” del settore: agopuntura, chiropratica, omeopatia, erboristica, naturopatia e osteopatia. Qualche esempio? GUNA, azienda di produzione e distribuzione di farmaci omeopatici. Il sito annuncia: “la scienza senza violenza”. E spiega come la compagnia sia nata non solo per offrire prodotti realizzati in armonia con l’uomo e la natura, ma per contribuire a costruire un mondo migliore. Oppure Aboca, nota casa italiana, presente con 500 dipendenti in ben 15 paesi. E il cui motto, spiegato dal fondatore in un video ben fatto e dettagliato, è: “nella natura c’è tutto”. Obiettivo esplicito della società è conciliare passato e presente, confezionare prodotti tradizionali con tecniche innovative. Rivelando, in questo senso, non una rinuncia alla ricerca tout court o alla scienza, ma solo al pensiero convenzionale.

Insomma: il lessico di chi produce e promuove medicinali alternativi è chiaro ed è composto da termini come natura, armonia, libertà – di cura e di pensiero -, costante riferimento a un mondo altro, verso cui andare, privo di violenza e più rispettoso dell’equilibrio e delle potenzialità individuali.

Tanto che l’azienda Bush Flower, per esempio, descrive i propri prodotti e estratti così: “rimedi floreali per esprimere il proprio potenziale, liberarsi dalle convinzioni negative e raggiungere il benessere emozionale”. E se il suo fondatore, il biologo Ian White, confessa di essere stato iniziato alle terapie naturali dalla nonna, esperta conoscitrice delle essenze locali, un messaggio chiave e comune alle diverse singole imprese emerge chiaro: c’è un altrove non corrotto, incontaminato, fatto di frammenti di passato – l’esperienza degli anziani – e di tensione verso il futuro - il superamento dei metodi convenzionali e della medicina istituzionale. Qui l’individuo può ripristinare il proprio stato di equilibrio vivendo in armonia con la natura e con se stesso.

Un racconto suadente, accattivante, e non solo perché crea una dicotomia tra medicina tradizionale, in un certo senso contaminata e forzosa, priva di una certa naturalezza, e medicina alternativa, luogo ideale di purezza e bontà delle tecniche e dei metodi. La narrazione non convenzionale è forte perché richiama la “reason why” dei consumatori, fa leva sulle motivazioni di acquisto e sulle speranze dei pazienti – attenzione! Ogni comunicazione che funziona si riferisce ai desideri o alle paure degli individui, innescarle non significa mentire o ingannare, ma semplicemente connettersi con le emozioni e le più intime riflessioni di ciascuno.

Quali sono, allora, le ragioni della fuga dalla medicina tradizionale? Innanzitutto, secondo una indagine del 2012 condotta da Doxapharma per OmeoImprese, l’ovvio fascino della naturalità. Per ben il 53,6% degli intervistati è questo l’aspetto saliente e dirimente per decidere di acquistare un farmaco alternativo. Inoltre, spiegano i ricercatori, alla base dell’utilizzo dei prodotti omeopatici ci sono due temi chiave: l’assenza di effetti collaterali e il fatto che si possono assumere con tranquillità.

Non solo. Secondo le due omeopate Carla Biader Ceipidor e Lucia Gasparini, è centrale nelle cure alternative il ruolo compassionevole del medico. Non più e non esclusivamente un freddo scienziato, attento ai sintomi, ma un confidente. “Il rapporto medico-paziente – scrivono – è uno degli aspetti più importanti della medicina in genere e dell’omeopatia in particolare. Le modalità con cui viene condotto l’interrogatorio omeopatico sono variabili e personalizzate al paziente. Il medico deve essere capace di sentire e di adattarsi al paziente, deve essere in grado di condividere le sue emozioni e il suo modo di essere”.

Ecco, allora, un ulteriore aspetto centrale nella narrazione della medicina alternativa: la centralità del singolo, meritevole di una cura il più possibile personalizzata, non standard, e capace di intervenire nel percorso di cura con un ruolo decisivo. Il paziente, in soldoni, è un individuo che fa, non un soggetto cui viene fatto qualcosa.

Secondo Funham, infatti, la medicina tradizionale e la CAM differiscono non solo per il modo in cui intendono la terapia – orientata a eliminare la malattia, nel primo caso, capace di consolidare e promuovere le forze salutari, nel secondo – ma anche nell’idea stessa di “paziente”. Se per i medici allopatici il paziente è “un contenitore di soluzioni esterne”, per l’omeopatia è un soggetto attivo di cura. Perché la persona è un tutto, senza fratture tra soma, psiche e contesto sociale.

Gli ingredienti comunicativi, insomma, ci sono tutti: nuovo protagonismo del malato, capacità del concetto di natura di rassicurare rispetto a effetti nocivi o collaterali, richiamo ad un altrove puro, più sereno già di per sé e idealmente privo di negatività – e quindi anche di malattia. Fidarsi è facile. Eppure non tutti lo fanno. Perché?

Perché non tutti condividiamo lo stesso stile di pensiero. E se, secondo Marieke Saher del Department of Psychology della Università di Helsinki, a determinare la propensione verso la medicina alternativa è il personale stile di processare le informazioni, più orientato all’intuizione in chi la predilige o sperimenta, è sempre Funham a offrire un ragionamento di dettaglio, spiegando, in un lungo articolo intitolato “The Psychology of Complementary and Alternative Medicine”, che sono quattro gli stili di pensiero rispetto alla CAM.

Il primo è la prospettiva biomedica, fondata su un rifiuto della visione olistica e secondo cui la medicina alternativa sarebbe fraudolenta; il secondo, favorevole alla CAM, è rappresentato dalla prospettiva complementare, che considera invece limitato l’approccio biomedico, ed è fondata su un approccio olistico che ritiene la malattia sintomo di un problema di sistema, in grado di coinvolgere anche la psiche umana; il terzo consiste nella prospettiva progressiva, empirica, tipica di chi pensa che medicina tradizionale e complementare possano anche andare insieme. Infine, c’è la prospettiva postmoderna, secondo cui tutto ciò che è istituzionale deve essere ri-discusso, persino la CAM, connessa, essa stessa, a particolari interessi economici.

Chi abbraccia esclusivamente la prospettiva biomedica, come chi, invece, condivide la postmoderna, non si fiderà mai, e per ragioni opposte, della medicina alternativa e tenderà a considerarne un unico – e provato – effetto: quello placebo (fondato proprio su un meccanismo di fiducia e nuovo protagonismo dell’individuo, percepito come in grado di determinare gli esiti della cura). Chi, al contrario, sposa la visione complementare, assumerà erbe e prodotti diluiti. Chi infine si ritiene più vicino alla prospettiva progressiva proverà tutte le strade, anche quella erboristica. E sono in molti, il famoso 80%. Perché così tanti? Perché in fondo curarsi è diverso dal prendersi cura. Una attività per la quale a volte serve pure un corno rosso attaccato allo specchietto retrovisore. Non funziona, eh. Ma se funziona….

Ps: confessione. Non ho cornetti in macchina, ma ho in casa uno scaffale in cui Tachipirina e succo di aloe convivono alla grande. Uno dei due è scaduto, vero, ma l’importante è che sia là, come una sacra effige para-medica.