Non solo 'Me ne frego!'. Se l’espressione è tornata oggi di grande attualità – rivista e rimodulata, del tutto de-politicizzata e privata di ogni richiamo storico nel testo di Rovazzi – emerge però in tutta la retorica politica una certa continuità con il linguaggio fascista. Gli anni ‘10 del Duemila e quelli ‘30 del secolo scorso per certi versi si assomigliano: siamo nell’epoca di un nuovo cesarismo, in cui la leadership si connota per una costante evocazione del popolo e una contemporanea e continua aggressione alle élite.

Colonna monumento

Il motivo per cui è possibile confrontare l’oratoria mussoliniana con i tweet di Salvini, i post di Grillo e i gufi di Renzi risiede in una premessa. Il duce, come ha scritto la docente di linguistica Maria Rosa Capozzi dell’Università per Stranieri di Perugia, comprese subito l’importanza strategica della comunicazione ad ampio spettro ai fini della creazione di un consenso che coinvolgesse anche le aree rurali, fino ad allora sostanzialmente escluse dalla comunicazione politica.

Ha spiegato infatti Gian Paolo Ceserani in Storia della Pubblicità – Laterza, 1988, 120 pp - come Mussolini dovesse “vendere un prodotto di massa: la propria figura di capo. Egli guarda agli italiani in modo assolutamente nuovo: li vede come consumatori e precisamente come consumatori politici”. Un’ottica che da quel momento in poi, anche per il diffondersi nel tempo di tecnologie della comunicazione sempre più pervasive e costantemente funzionanti, non è più possibile abbandonare. Anzi.

Siamo oggi nell’era della disintermediazione giornalistica per eccellenza, della ricerca costante del contatto diretto, quasi personale, tra oratore politico e follower. Tanto che i due diventano amici su Facebook, si seguono a vicenda, raccontano insieme una realtà in cui i corpi intermedi della società – i partiti in primis, oltre alla stampa – rischiano di essere percepiti come disturbatori, prevaricatori, o, nel migliore dei casi, come soggetti socialmente inutili.

Un esempio? Virginia Raggi. Non solo perché la “presa del Campidoglio”, a mo’ di quella della Bastiglia, è stata raccontata come un’opera di successo dei cittadini che, in una roboante epopea capitolina, sono entrati nel palazzo e l’hanno rovesciato; ma soprattutto perché il suo è un costante tentativo di rivolgersi direttamente ai romani, con video, rubriche e blitz sempre documentati nei dettagli in Ama e Atac. Quello di Raggi è un modello narrativo funzionale, tecnicamente corretto – se non cade nell’offesa dei cronisti, per esempio, che l’aspettano sotto casa – e diffuso.

L’annullamento della stampa è infatti un topos della comunicazione politica attuale: era evidente con Obama, lo è altrettanto – anche se con contenuti diversi - con Trump – il quale, però, compie l’intera parabola, porta alle estreme conseguenze l’atteggiamento e arriva a scrivere in “Great Again. How to Fix Our Crippled America”: “Io dico alle persone ciò che hanno bisogno e meritano di sentirsi dire e questa è la Verità”. Oppure, durante una intervista telefonica con il Washington Post, alla domanda della giornalista – “Come farà la gente a sapere che l’America è diventata di nuovo grande? È una cosa soggettiva” - ha risposto: “Sarò io a dirlo”.

Nella retorica del duce, invece, la ricerca della relazione diretta con la folla avveniva a livello retorico tramite gli strumenti enunciativi del cosiddetto embrayage, come spiega Capozzi. Ossia attraverso l’uso dei pronomi di prima e seconda persona, di elementi che si riferiscono alla situazione dell’enunciato, come i deittici – qui, oggi, ed ogni termine che per essere compreso ha bisogno di un contesto di riferimento – e di un costante, prolungato tempo presente. “Camicie nere! - disse Mussolini nel primo anniversario della marcia su Roma - Noi ci conosciamo; fra me e voi non si perderà mai il contatto”. L’obiettivo, subito esplicito nel primo segmento del testo, è strutturare un “noi” caldo, noto, visibilmente codificato – la camicia nera - il cui perimetro ideale non è esplicito ma fa riferimento a presunti valori comuni, a condivise visioni del mondo. Un modo di parlare efficace, attraente, coinvolgente. Per questo, a ben vedere, usato da chi “sa comunicare”.

Non è infatti solo il nostro linguaggio politico ad essere diventato, per certi versi e in senso spregiativo, fascista – con l’uso reiterato, ad esempio, dell’offesa verso l’avversario, concepito come nemico del popolo – ma è stato il duce, tecnicamente, a adottare strumenti linguistici efficaci.

Gli slogan mussoliniani, ad esempio, assomigliano a quelli pubblicitari e ne prendono in prestito figure retoriche e forme dell’enunciato. Da un punto di vista stilistico è evidente: “Credere, obbedire, combattere”; “Molti nemici, molto onore”. Ma anche: “Combattere, soffrire e se occorre morire”. Sono, spiega Capozzi, motti perentori sviluppati su uno schema binario o ternario: sono brevi, facili da ricordare, ritmati. Insomma: se la struttura è simile a quella di un tweet – pochi caratteri, verbi spesso all’infinito, ripetizione – alcuni leader odierni ne imitano anche il tono. Attribuendo, per esempio, alle proprie foneticamente ridotte opinioni un carattere dogmatico e manicheo.

Matteo Salvini, per esempio, non solo è un esperto nell’uso di hashtag – parole chiave usate per etichettare le conversazioni online – fortemente iconici - #motosega, per esempio, o l’uso ripetuto e quasi visivo del termine “ruspa” – ma, imitando Trump, scrive piccoli dogmi social come: “Difendere il Made in Italy, comprare, assumere, consumare italiano”.

Enunciati del genere non solo introducono un altro aspetto del pensiero fascista – una autarchia capillare, arrivata con il duce fino all’epurazione nel vocabolario italiano di termini anglofoni come “film”, sostituito con “pellicola” – ma svelano un meccanismo comunicativo tipico dello slogan. “A livello argomentativo – ha scritto infatti Capozzi – lo slogan si sviluppa su ragionamenti ellittici”.

Esso permette, infatti, l’omissione di un segmento logico del discorso: l’introduzione o la conclusione, per esempio. Il risultato consiste nel dare per scontate le premesse, come se non ci fosse bisogno di renderle note perché vere, uniche, già conosciute, rispondenti a opinioni ampiamente diffuse. “Tale schema – conclude la linguista – sembra configurare un rapporto apparentemente paritario tra emittente e destinatario, il quale viene chiamato in causa per completare le parti mancanti del sillogismo”.

Insomma: l’eterno ritorno dell’elettore, che partecipa al discorso politico, colmandone a livello cognitivo le – volontarie – lacune. Un meccanismo, inoltre, adottato in maniera capillare. Anche da Matteo Renzi. Il quale tenta, spesso, di fare proprio il linguaggio più diffuso, gli hashtag più alla moda, coniandone a sua volta alcuni di grande successo – chi non ricorda #Enricostaisereno?

Insomma: il linguaggio fascista era social e pop. Raccontava una visione del mondo all’epoca diffusa e sapeva condensarla in forme brevi, in tweet. Ma – e questo è il problema - emergono nei testi dei nostri attuali leader alcuni caratteri non tecnicamente ma ontologicamente fascisti, in senso negativo: violenti, aggressivi, “virili”. Un esempio: l’uso reiterato dell’offesa, che era per Mussolini un modo per screditare l’avversario senza però analizzarne il pensiero, evitando di motivare l’aggressione sul piano politico e spostandola in un contesto pre-politico, umano, quotidiano.

L’offesa mette meccanicamente l’individuo aggredito al di fuori dello spazio ideale del noi, perché nessuno desidera replicarne le caratteristiche di esclusione mentre ciascuno tende a voler essere parte di un mondo sicuro, di buoni, giusti, onesti. Ecco allora che gli insulti fantasiosi del duce – avariato, microcefalo, mezza cartuccia – sono “divertenti” tanto quanto, ad esempio, quelli di Beppe Grillo – il cui “Vaffa” dopotutto non è molto distante dall’altrettanto noto “Me ne frego!”. Un esempio: “È arrivata una macchina blu senza nessuno dentro ed è sceso Gentiloni” (riprendendo la storica battuta di Fortebraccio su Cariglia, NdR). L’attuale Presidente del Consiglio è descritto, quindi, come una nullità di cui nessuno si accorge.

Perché fa ridere? Perché è una aggressione alla élite, un “coraggioso” atto di violenza verso gli intoccabili, una ribellione popolare. Così se la Camera era con il duce una “Aula sorda e grigia”, oggi è diventata un luogo di vergogna: il Parlamento va aperto come una scatoletta di tonno, chi c’è dentro va buttato fuori, in pubblica piazza, alla gogna. Il motivo? Non conta.

Disse Achille Starace, gerarca: “La parola del fascista è un patto”. Ma ogni parola lo è – perché ogni termine, ogni frase è politica, nel senso che costruisce visioni e comunità. Il problema è su cosa si fonda il patto. E la similitudine con gli anni ‘30, in questo caso, diventa preoccupante.