La lentezza dell’amministrazione della giustizia in Italia è ormai nota in tutto il mondo, e scoraggia chiunque voglia investire e produrre nel nostro Paese. Quali sono le cause di questa situazione? E, soprattutto, quali potrebbero essere i rimedi?

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Negli ultimi giorni dello scorso anno, ha destato scalpore l'ordinanza con cui un giudice del tribunale di Taranto, Alberto Munno, ha rinviato al gennaio 2019 l’udienza di un processo iniziato nel settembre 2014. Il magistrato argomentava che, sebbene sfornasse una più che rispettabile media di 160 decisioni l’anno, il carico arretrato di circa 500 cause avrebbe esaurito la sua capacità lavorativa per il triennio 2016-2018, impedendo una più celere definizione della controversia in esame. “La protrazione sine die dell’impegno lavorativo”, rincarava Munno, brandendo la Costituzione e la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, “comporterebbe un’inammissibile compressione dei diritti inviolabili della persona umana del magistrato impiegato”. Conclusione impeccabile: ma che dire dei diritti di chi domanda tutela?

La vicenda non è che una dimostrazione plastica dello stato in cui versa la giustizia civile italiana. Se preferite un approccio meno scenografico e più rigoroso, ecco qualche cifra: quasi 5 milioni di procedimenti pendenti, una durata media (952 giorni in primo grado e di 3127 giorni per arrivare in Cassazione) doppia rispetto alla media mondiale e tripla rispetto a quella di paesi come Francia e Germania, la fiducia dei cittadini al 29% (contro una media Ocse del 54%) e un costo dei ritardi stimato in 16 miliardi l’anno – un punto di Pil. L’inaffidabilità della giustizia italiana scoraggia gli investimenti esteri e limita la competitività del sistema economico – senza contare il danno arrecato all’erario dai risarcimenti ex legge Pinto.

Inoltre, in una logica di analisi degli incentivi, è lampante che la lunghezza (e l’incertezza) dei processi favorisca un utilizzo opportunistico del sistema giudiziario, a tutto vantaggio dei contraenti infedeli, dei debitori insolventi e di coloro che, tra i litiganti, possano permettersi d’immobilizzare risorse in iniziative giudiziarie dall’esito dubbio. In altre parole, l’irragionevole durata delle cause non ha un impatto neutrale sulla generalità degli individui e delle imprese, perché aumenta i benefici attesi dalle liti temerarie, con un effetto sostanziale sul tasso di litigiosità. Siamo di fronte a un circolo vizioso: lunghezza e incertezza del processo ne favoriscono l’abuso, ma l’abuso del processo ne esaspera lunghezza e incertezza.

La cattiva notizia è che non c’e un colpevole ovvio – la spesa, gli organici, la produttività, persino la litigiosità appaiono tutto sommato in linea con il confronto internazionale. La buona notizia è che ci sono numerosi fronti su cui agire – tanto dal lato dell’offerta, quanto dal lato della domanda – con interventi strutturali e non emergenziali. Una considerazione preliminare deve riguardare il diritto sostanziale e la qualità della produzione normativa. L’instabilità delle soluzioni legislative, frutto della frequenza degli interventi e dell’insoddisfacente (e degradante) tecnica di redazione, disorienta gli operatori e condanna la giurisprudenza a un difficile – e, a propria volta, ballerino – ruolo di supplenza. Quello di dotarci di legislatori meno irruenti e più competenti è, però, un vasto programma.

Tra i rimedi più agevolmente percorribili, ci sarebbe la digitalizzazione della giustizia. Di processo civile telematico si discute in questo paese da almeno quindici anni: a dispetto dei numerosi provvedimenti intervenuti in materia, significative resistenze continuano a rallentarne l’introduzione. È appena il caso di osservare che la buona riuscita delle riforme dipende anche dalla disponibilità degli operatori a conformarsi al nuovo status quo – un’attitudine che si riterrebbe connaturata al mestiere di magistrato. Viceversa, invocando ora lo “svilimento della funzione”, ora la “perdita di qualità nel lavoro”, ora persino fantomatici danni alla salute, i giudici italiani restano arroccati a penna e calamaio.

Un piccolo esempio: numerosi uffici giudiziari continuano a richiedere – accanto al deposito degli atti di causa in formato digitale – la presentazione di “copie di cortesia” cartacee. Talora, simili previsioni sono state oggetto di appositi protocolli d’intesa tra i tribunali e le rappresentanze dell’avvocatura; e in almeno un caso, un magistrato si è spinto sino a sanzionare la parte che non aveva ottemperato a questo bizzarro invito obbligatorio, condannandola al versamento di 5000 euro – secondo un’impostazione poi fortunatamente disattesa da un collega più ragionevole nel prosieguo della causa. Il decreto giustizia dello scorso agosto, da un lato, estende agli atti introduttivi il principio della presentazione telematica; dall’altro, generalizza il ricorso alla copia di cortesia. La restaurazione analogica è viva e lotta insieme a noi.

Un altro tema cruciale è quello dell’efficienza dei metodi organizzativi adottati nei tribunali. Anche qui, un esempio: la fondazione Giuseppe Pera di Lucca ha avviato nel 2012 una sperimentazione volta a intervenire sui carichi di lavoro e sulla calendarizzazione delle udienze. Il principio è piuttosto elementare: si tratta di limitare il numero di fascicoli contestualmente sottoposti all'attenzione dello stesso magistrato per permettere di abbreviare i tempi di decisione (e incrementare la qualità delle decisioni).

Se si mira a conciliare la previsione di termini a garanzia delle attività delle parti con la necessità che gli uffici giudiziari lavorino a pieno ritmo, è naturalmente inevitabile che procedimenti diversi avanzino in parallelo; tuttavia, il fatto che il loro numero in un particolare momento si misuri in decine o in centinaia non è indifferente ai fini della durata complessiva delle cause. Sin dall’esordio presso la sezione lavoro della Corte d’appello di Roma, il programma – nel frattempo esteso ad altri organi giudicanti – ha confermato tale intuizione, traducendosi in un aumento di produttività superiore al 20%.

L’organizzazione del lavoro richiede competenze che i magistrati non possiedono e non sono tenuti a possedere. Per ovviare a questa carenza, numerosi paesi prevedono la figura di un dirigente amministrativo che affianchi (o, in alcuni casi, sostituisca) il magistrato responsabile dell’ufficio nell’amministrazione delle risorse e nella gestione operativa, lasciando a questi il pieno dominio degli indirizzi giurisprudenziali. Una simile innovazione, accompagnata da adeguati criteri di valutazione e meccanismi di responsabilizzazione, avrebbe un impatto benefico sull’efficienza della macchina giudiziaria. Arricchire, sotto il profilo manageriale, il capitale umano degli uffici aiuterebbe, inoltre, a valorizzare due tendenze – quella all’accorpamento delle sedi e quella alla specializzazione dei giudici – perseguite con provvedimenti recenti e meritevoli di approfondimento.

Venendo alla domanda di giustizia, un elemento che non può essere trascurato è il fatto che, nonostante la recente revisione al rialzo, i contributi unificati coprano solo una minima parte dei costi di un processo. Beninteso, si può argomentare sensatamente che la funzione giurisdizionale sia il core business delle organizzazioni statali e, in quanto tale, vada naturalmente posta a carico della fiscalità generale. Tuttavia, questa divaricazione tra costi e benefici può avere un effetto inflattivo sulla litigiosità. Si potrebbe, allora, immaginare di addebitare alle parti soccombenti una maggior quota dei costi generati dai procedimenti che li hanno visti coinvolti.

Come evitare che questo si traduca in un ostacolo insormontabile all’accesso alla giustizia da parte delle fasce più deboli della popolazione? Per esempio, attraverso il ricorso all'assicurazione di tutela legale. Oppure, facendo chiarezza sul patto di quota lite – prima vietato, poi ammesso, poi nuovamente vietato, ma forse ammesso con limiti. O, ancora, pensando ad apposite forme di sostegno.

Vi è, infine, il tema del ricorso ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie. La parola chiave è “alternativi”. Nell’esperienza recente – penso, in particolare, alla mediazione obbligatoria – tali strumenti sono stati interpretati come un’anticamera del ricorso alla giurisdizione ordinaria – così da prolungare la durata complessiva delle liti, esacerbando i problemi fin qui evidenziati. Il successo degli strumenti alternativi – e il loro effetto di deflazione del contenzioso – non può prescindere dalla volontarietà dell’utilizzo: andrebbero, pertanto, resi più appetibili, mentre le ipotesi di obbligatorietà andrebbero eliminate. Nel caso della mediazione, stante il carattere atecnico e non vincolante dell’attività, sarebbe opportuno sfrondare i vincoli regolamentari previsti (per esempio, in tema di accesso alla professione e di tariffe).

Quanto all’arbitrato, il processo privato potrebbe essere potenziato dalla previsione in capo agli arbitri di poteri cautelari e dalla riduzione delle ipotesi d’impugnazione del lodo. In un’ottica di giustizia sostanziale e di attrazione degli investimenti, il suo utilizzo dovrebbe essere particolarmente favorito in materia di contratti pubblici – l’esatto contrario di quanto fatto con la legge Severino. Il Decreto giustizia prevede un credito d’imposta di 250 euro per chi ricorra a negoziazioni o arbitrati: ottima misura, a patto che se ne adegui il finanziamento, attualmente limitato a 5 milioni complessivi.