Un esercito comune europeo - non un esercito unico - piuttosto che essere il fine solo e ultimo di un lungo tentativo di compromesso, potrebbe essere l’inizio di un progetto molto più complesso e ambizioso: l’autonomia strategica dell’Unione Europea.

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Non nascondiamo la soddisfazione. La vigorosa arringa di Alain Juppé a favore di un'Europa della Difesa costituisce una svolta. Per la prima volta da molto tempo un uomo politico francese di primissimo piano sottolinea la necessità di passare “dal progetto all'imperativo”(1) .

In un momento in cui un grande stato europeo, la Russia, ritorna a dei comportamenti che, almeno in Europa, si sperava appartenessero al passato, ovvero quelli della guerra di aggressione, dell'annessione e dell'occupazione con la forza di territori di un stato vicino, mentre una guerra di una violenza inaudita mette a ferro e fuoco due grandi Paesi del Medio Oriente, e una parte del Maghreb e del Sahel si trasformano in santuario di movimenti terroristi, questa presa di posizione è benvenuta. Tanto più che un'altra minaccia, più insidiosa, grava sull'Europa: una lenta e silenziosa scissione degli approcci strategici della Germania e della Francia.

Da un lato, come ha mostrato Justyna Gotkowska, “la Germania tenterà di attuare all'interno dell'UE il ‘Framework Nations Concept’ già messo in atto nella Nato. In questo quadro, la Germania vuole essere il Paese che integra le forze armate dei partner più piccoli del Benelux, della regione nordica-baltica e del gruppo di Visegrad”(2). Se un tale progetto politico dovesse imporsi, ciò equivarrebbe, nel medio termine, a una forma dissimulata di vassallaggio di buona parte dell'Europa del Nord e del Nord-Est.

Dal canto suo, la Francia persegue da decenni una politica poco chiara, nella quale le esitazioni sulla reintegrazione nel comando integrato della Nato, quando non addirittura la convinzione di un'incompatibilità strutturale tra la Nato e una politica di difesa europea comune, convivono accanto a iniziative bi- o multi-laterali senza reale futuro politico(3).

Lo stato dell'arte
Soltanto due Paesi dell'Unione europea sono ancora in grado di condurre in modo autonomo delle operazioni militari di bassa intensità: la Francia e la Gran Bretagna. Nei fatti, uno solo – la Francia - lo fa ancora: in Costa d'Avorio ieri, nel Mali, nella Repubblica Centrafricana, nella fascia sahel-sahariana oggi con l'operazione Barkhane. Come hanno dimostrato le operazioni in Libia e quella, abortita, in Siria, nessun Paese dell'Unione è più in grado di condurre, senza il sostegno degli Stati Uniti e/o della Nato, un'operazione di media intensità. Quanto alle operazioni di alta intensità, l'aggressione russa in Ucraina è lì per ricordarci, se ce ne fosse bisogno, che la difesa dell'Europa poggia, essenzialmente, sulla Nato.

Come afferma il generale Desportes “è oggi indispensabile avviare la costruzione dell'Europa della difesa, essendo realisti: tutto ciò che è stato fatto finora non ha prodotto che dei risultati estremamente limitati”(4). In altri termini, bisogna cambiare paradigma. Occorre che gli Europei rompano con l'approccio cooperativo e che, sul modello proposto da Jean Monnet, si dedichino insieme alla costruzione di uno strumento comune affidato alle istituzioni comuni: l'esercito europeo recentemente auspicato da Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea.

Repetita iuvant: un esercito comune. Non un esercito unico. Per Ursula von der Leyden, la ministra tedesca della Difesa, si tratterebbe di un orizzonte lontano, per Alain Juppé di un orizzonte poco realista. Non potrebbe, piuttosto, essere che il vero orizzonte sia l'autonomia strategica dell'Unione e l'esercito comune il punto di partenza del lungo cammino verso questa autonomia? Vediamo.

Nato contro Europa della difesa
Se esiste una leggenda persistente, è quella dell'incompatibilità presunta tra la Nato e una politica europea di difesa. Questa verità costantemente ripetuta non resiste molto all'analisi dei fatti. Né l’appartenenza della Francia alla Nato, né la sua reintegrazione nel 2009 nel commando integrato ha mai impedito a questo Paese di intervenire da solo sul continente africano. Per quale misteriosa ragione dovrebbe andare diversamente per un esercito comune europeo? Per quale ragione, peraltro, gli Europei non potrebbero negoziare uno statuto ad hoc per questo esercito comune, come, per esempio, quello di forza di riserva della Nato che verrebbe inserita nel comando integrato solo in caso di minaccia contro uno o più membri dell'Alleanza (articolo 5 del Trattato)?

La questione britannica
Conviene arrendersi all'evidenza. I Britannici attraversano una fase acuta di incertezza nei confronti dell'insieme del processo di integrazione europea. È in primo luogo a questo che il Regno Unito e gli altri stati membri dell'Unione dovrebbero tentare di dare una risposta, che abbia l’obiettivo di dare del tempo al tempo. A breve termine, non c'è alternativa a una riorganizzazione delle istituzioni europee che consenta ai Britannici e a quelli che, come loro, condividano soltanto il progetto e l’ambizione del grande mercato europeo di trovare il loro giusto posto in seno all'Unione. Anche solo per far sì che la quarta libertà di circolazione – quella delle persone - rimanga una delle fondamenta di questa grande Europa saranno necessari molti sforzi.
In questa fase, dunque, non esiste alternativa: bisogna prendere atto che un progetto di difesa europea comune va ben al di là di ciò che i Britannici sono disposti oggi ad accettare, ma, allo stesso tempo, lavorare sulle sicurezze per l'avvenire, dando loro la garanzia che potranno decidere di parteciparvi in qualsiasi momento.

Reticenze tedesche
La reticenza dei tedeschi a intervenire militarmente su teatri esterni costituisce una realtà non aggirabile. Pensare di poter affrontare questa problematica nel quadro di cooperazioni intergovernative è, nel breve e nel medio termine, assolutamente illusorio. Non c'è dunque altra soluzione che quella di modificare le coordinate del problema. Esattamente ciò che un esercito europeo comune consentirebbe di fare, alla precisa condizione, tuttavia, che esso sia concepito non come una somma di pezzi di eserciti nazionali, ma come un esercito composto di soldati europei che rispondono alle istituzioni europee. Una reale europeizzazione di questo strumento costituirebbe peraltro una protezione efficace contro la fragilità di numerosi stati di fronte alla prova del fuoco, ai ricatti, alle minacce (Srebrenica, Ruanda, Afghanistan …).

Per quanto riguarda i blocchi istituzionali tedeschi, la storia della costruzione europea ci insegna che questi non possono essere sbloccati, se non in un quadro istituzionale europeo. Un'esigenza peraltro non solo tedesca. Contrariamente a ciò che una certa vulgata vuole far credere, e cioè che i “piccoli” stati membri esigono di “pesare” quanto i grandi, la realtà europea è invece il riconoscimento da parte dei primi di alcune differenze di “statuto”. La vera questione risiede nella garanzia di una reale (seppur differenziata) partecipazione di tutti, “piccoli” e “grandi”, al processo di presa di decisione. Il meccanismo del voto a doppia maggioranza (maggioranza degli stati e maggioranza dei cittadini) lo consente.

L'industria europea della difesa in pericolo
L'industria europea della difesa è ancora, in buona parte(5), una galassia di industrie nazionali. Perché l'Europa possa conservare in questo settore un'industria autonoma e competitiva, non c'è altra via che quella di favorire la costituzione di gruppi industriali europei, in particolare nei settori navale ed aeronautico.

Non farlo significa solo privare, a più o meno breve scadenza, l'Unione europea e, di conseguenza, i suoi stati membri di un know-how in settori in cui gli stati membri da soli non sono più in grado di allocare le risorse necessarie (R&D in aeronautica militare, cyber-guerra e altro). Non farlo significa anche protrarre sine die, all'interno di alcuni stati membri, meccanismi di socializzazione dei costi e di privatizzazione dei profitti(6), o persino favorire l'esistenza di veri e propri “stati nello stato” e, di conseguenza, prolungare all’infinito l'esistenza di veri e propri bastioni di opposizione a qualsiasi progetto di integrazione europea.

L’autonomia francese
La questione della salvaguardia dell'autonomia strategica – o, più esattamente, di una certa autonomia - della Francia, notevole non-detto, è probabilmente il punto cruciale del dibattito su una difesa europea comune. La nostra convinzione è che la costituzione di un esercito europeo comune non solo è compatibile con la permanenza di una capacità di intervento autonoma della Francia su teatri esterni, ma ne costituisce, molto probabilmente, la precondizione. Mutualizzando una parte delle proprie capacità di difesa, spesso divenute insostenibili dal punto di vista finanziario e contestabili dal punto di vista militare(7), la Francia potrebbe, nel caso in cui i suoi partner europei non volessero intervenire, mantenere se non rafforzare le proprie capacità di condurre da sola operazioni di bassa intensità.

Conclusioni
Alain Juppé è allo stesso tempo troppo e troppo poco ambizioso. Troppo quando propone di “accettare la nozione di autonomia strategica per l'Unione”(8) , mentre un primo segmento di autonomia strategica costituirebbe di già una vera e propria rivoluzione. Troppo poco quando propone di progredire conservando lo stesso metodo intergovernativo, lo stesso che ha favorito il vuoto strategico dell'Unione. Non ci sarà difesa comune senza un'europeizzazione delle grandi imprese di difesa e senza l'inserimento di questa politica nel cuore delle istituzioni europee. Ma non ci sarà neanche una difesa europea senza una volontà politica forte, in primo luogo della Francia. In questo senso la presa di posizione del sindaco di Bordeaux è di prima importanza.

Note al testo:
(1) «L'Europe de la Défense: du projet à l'impératif», Alain Juppé, Le Figaro, 26 giugno 2015;
(2) «Germany’s idea of a European army», Justyna Gotkowska, OSW, 25 marzo 2015; 
(3) Brigata franco-tedesca, Appello di Saint-Malo;
(4) «L'armée française n'a pas les moyens des missions qu'on lui confie», intervista con il generale Desportes, Le Figaro, 13 luglio 2015; 
(5) Con delle notevoli ancorché parziali eccezioni. MBDA nel settore missilistico (Germania, Francia, Italia), l'A400 nel settore del trasporto militare (Germania, Francia, Spagna), Eurocopter (Germania, Francia, Spagna), e, in divenire, nel settore dei veicoli blindati (Germania, Francia);
(6) Nel caso del Rafale, si tratta di una iniezione di fondi pubblici dell'ordine di un miliardo di euro l'anno da una trentina di anni, senza parlare dei costi di «promozione commerciale» assicurati per una buona parte dal Quai d'Orsay (la Farnesina francese);
(7) Il possesso di un solo gruppo aeronavale (intorno al Charles de Gaulle) ne rappresenta un esempio emblematico: è noto che servono almeno tre gruppi aeronavali perché almeno uno di questi sia operativo;
(8) Alain Juppé, op. cit.