Una Bretton Woods "made in China" forse non è il migliore dei mondi possibili, ma nemmeno il peggiore. Analizziamo occasioni e pericoli di uno scenario economico mondiale che cambia, ricordando le parole fiduciose di Adam Smith sulle conseguenze positive, per tutti, di quella che oggi chiamiamo "globalizzazione".

Loprete bandCina grande

Sostenne Adam Smith, quando nel 1776 tentò di tirare le somme dei "due avvenimenti più grandi e più importanti nella storia dell'umanità" – cioè la scoperta dell'America e la circumnavigazione del Capo di Buona speranza – che certo il mondo europeo aveva compiuto nei tre secoli precedenti un formidabile scatto in avanti rispetto al resto del pianeta. Il filosofo scozzese, nella "Ricchezza delle Nazioni", non negava le possibili "calamità" annesse all'irradiazione globale della società fondata sul commercio (e presto sull'industria), tuttavia prevedeva un contagio positivo di cui non si sarebbero avvantaggiati soltanto gli europei.

"In futuro gli indigeni di quei paesi (Indie orientali e occidentali, ndr)", insomma i non occidentali, "potranno diventare più forti o quelli dell'Europa più deboli. E gli abitanti di tutte le diverse parti del mondo potranno raggiungere quella uguaglianza di coraggio e di forza che, ispirando timore reciproco, da sola potrà imporre all'ingiustizia delle nazioni indipendenti qualche tipo di rispetto dei diritti reciproci – scriveva Smith alla fine del diciottesimo secolo – Ma niente sembra avere più probabilità di instaurare questa uguaglianza di forza dello scambio reciproco delle conoscenze e di tutti i tipi di progresso che un commercio esteso da tutti i paesi a tutti i paesi porta naturalmente o piuttosto necessariamente con sé".

Proprio in queste settimane la Cina, promuovendo la nascita della Banca asiatica d'investimento per le infrastrutture (o AIIB) – organizzazione internazionale che si affiancherà ad attori decennali della governance globale come Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Banca asiatica per lo sviluppo, eccetera – è tornata a dimostrare cosa significhi per il mondo non occidentale perseguire quella "uguaglianza di coraggio e di forza" negli equilibri geopolitici planetari, nel campo dello "scambio reciproco delle conoscenze", di "tutti i tipi di progresso" e delle regole a ciò connesse. Analizzare la vicenda dell'AIIB, insomma, è un po' come (ri)leggere Adam Smith a Pechino.

Nell'ottobre 2013, la leadership del Partito comunista cinese ipotizzò in pubblico, per la prima volta, l'istituzione di una organizzazione internazionale che avesse come obiettivo primario lo sviluppo delle infrastrutture nel continente asiatico. Strade, ferrovie, aeroporti, porti e reti energetiche: la Asian Development Bank (ADB), nata nel 1966 per volontà nippo-americana, da tempo ha stimato che, dal 2010 al 2020, sarebbero necessari ogni anno almeno 750 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture fisiche affinché l'Asia possa continuare a crescere in maniera soddisfacente. Pechino non ha voluto attendere troppo e così, già dalla fine di quest'anno, la neonata Banca asiatica d'investimento per le infrastrutture (AIIB) avrà uno statuto approvato dagli Stati aderenti; 50 miliardi di dollari di capitale iniziale, 100 miliardi potenzialmente da prestare.

Né la rapidità con cui è nato questo organismo multilaterale o la sua entità ragguardevole costituiscono gli aspetti più sbalorditivi della questione. Ciò che ha tenuto banco negli ultimi mesi, infatti, tra analisti e cancellerie di mezzo mondo, è stata la capacità della Repubblica popolare cinese di attrarre altri Paesi in seno a questa organizzazione. A oggi sono 57 gli Stati del mondo che hanno risposto, entro la scadenza del 31 marzo, alla chiamata per diventare "membri fondatori" dell'AIIB a trazione cinese. Tra questi 57 Stati ci sono praticamente tutti i Paesi asiatici, eccezion fatta per il Giappone; ci sono inoltre 16 delle prime 20 economie del pianeta (Stati Uniti, Giappone, Messico e Canada gli unici rimasti fuori).

Presto si è capito che anche storici alleati degli Stati Uniti nel continente asiatico non intendevano rimanere tagliati fuori dalla nuova iniziativa (vedi le adesioni della Corea del Sud e dell'Australia). Il 12 marzo scorso, poi, un altro colpo di scena, con l'annuncio della volontà del Regno Unito di diventare il primo membro occidentale dell'AIIB, seguito dopo poche ore dagli altri Paesi dell'Europa occidentale, Italia inclusa. A quel punto, sono iniziati a filtrare forti malumori da parte dell'Amministrazione americana, delusa dall'atteggiamento "troppo accondiscendente" dei suoi alleati verso la Cina. Malumori smentiti soltanto alla fine del mese di aprile dal presidente Barack Obama che ha parlato di "misunderstanding", e che ha detto di sostenere l'iniziativa se gli standard per la gestione interna e l'elargizione del credito saranno elevati e trasparenti.

D'altronde, con Pechino che, per esempio, ha fatto sapere di non voler prevedere per sé un diritto di veto all'interno dell'AIIB da lei fondata, la sfida simbolica alla governance globale di ispirazione americana appare evidente. Nel cosiddetto sistema di Bretton Woods, nato alla metà degli anni '40 del secolo scorso e composto da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, gli Stati Uniti mantengono invece un veto di fatto su alcune decisioni chiave, come la redistribuzione di quote, e poteri di voto che penalizzano ancora Paesi emergenti come la Cina. La disfida, insomma, è geopolitica.

Lawrence Summers, già segretario al Tesoro dell'Amministrazione Clinton e poi direttore del National economic council di Obama fino al 2010, ha scritto che "sarebbe il momento per la leadership americana di aprire gli occhi sulla nuova èra economica". Secondo Summers, considerati il lancio dell'AIIB e le adesioni degli alleati di Washington, gli storici potrebbero ricordare per sempre il mese di marzo 2015 come il momento in cui gli Stati Uniti hanno perso "il ruolo di garante di ultima istanza del sistema economico globale".

Tutto bene per l'Europa, invece? Non esattamente. I Paesi del Vecchio continente sono stati rapidi ad aderire all'AIIB, ma questo processo avviene mentre un'organizzazione come il Fondo monetario internazionale, a lungo specializzatasi nell'aiutare i Paesi in via di sviluppo, negli ultimi tempi si trova sotto un fuoco di critiche dei suoi membri per il fatto di aver speso più risorse per aiutare alcuni Stati dell'Eurozona (Grecia in primis) di quanto non avesse fatto durante la crisi asiatica degli anni '90. Nell'AIIB, dove i diritti di voto per i paesi occidentali non dovrebbero mai superare il 25% del totale, una cosa simile non accadrà mai più. L'AIIB, infine, segnala pure che i paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) non sono più quelli in grado di dire soltanto dei "no" nei consessi multilaterali; per la prima volta potranno proporre policy e politiche creditizie alternative, e presto avranno pure lo strumento per farlo.

A dispetto di tali e tante tensioni geopolitiche, riacutizzate dalla nascita dell'AIIB, la chiave interpretativa offerta da Adam Smith rappresenta una nota di speranza. L'ascesa della Cina dagli anni '70 a oggi, infatti, come ha scritto l'economista Richard C. Koo, "si sta realizzando all'interno di un mondo in cui l'espansione territoriale non è più vista come condizione necessaria per raggiungere la prosperità. Al contrario, qualsiasi governo che persegue una politica espansionistica oggi mette la sua economia in pericolo".

La Cina, fino a oggi, ha smentito quanti da più parti preconizzavano una emulazione, da parte di questo Paese, dell'incontenibile Germania guglielmina, tutta militarismo ed espansionismo: "La Cina ha aderito al grande movimento del libero commercio quando Deng Xiaoping ha aperto l'economia nel 1979. Nei successivi trent'anni abbiamo assistito al più grande caso di crescita economica nella storia umana". Un Paese di 1 miliardo di persone, con un pil pro capite di 313 dollari nel 1980, è diventato nel 2014 la seconda economia del pianeta, con un pil pro capite di 7.572 dollari. Nel corso di questa avanzata, l'avanzo commerciale cinese con gli Stati Uniti è cresciuto fino a 319 miliardi di dollari nel 2013, il più ampio registrato da qualsiasi partner commerciale americano.

La nascita e l'evoluzione dell'AIIB, di per sé, rientrano in questo paradigma di espansione pacifica e globalizzante. Se nelle élite cinesi avranno la meglio quanti diffidano di una nozione di "grandezza nazionale" che era invece adatta al mondo pre-1945, allora la Banca asiatica d'investimenti per le infrastrutture, nel panorama dei diversi sistemi di governance multilaterale, potrà funzionare come un input di salutare concorrenza. A mo' di sveglia, e non di pietra tombale, per Bretton Woods o l'Unione europea.